Panda Bear – Panda Bear Meets the Grim Reaper (Recensione)

Panda Bear – Panda Bear Meets the Grim Reaper (Recensione)

2017-11-08T17:15:45+00:005 Febbraio 2015|


Panda Bear Meets the Grim Reaper
Noah Lennox torna con un esercizio di stile che non riesce a uscire dalla propria auto-referenzialita', e che si perde in loop e basi digitali poco convinte per mancanza di coesione.

6,5/10


Uscita: 13 gennaio 2015
Domino Records
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L'"animale collettivo" Noah Benjamin Lennox – nome d'arte Panda Bear, che si è scelto a furia di scarabocchiare pandini su quaderni e mixtapes – si fa orsetto solitario ancora una volta, lasciando l'oscura tana in cui aveva composto Tomboy (lo scantinato in cui l'album è stato effettivamente concepito, o 'The dungeon', come lo ha definito lo stesso Lennox) per andarsi a scaldare un po' sotto il sole texano che ha visto nascere anche l'ultima fatica degli Animal Collective (Centipede Hz del 2012), e un po' al focolare domestico tutto europeo della sua casa a Lisbona, dove ad attenderlo – e ispirarlo – ci sono la moglie Fernanda Pereira e due graziosi figlioli. Ad aiutarlo a mettere insieme e completare tutti gli stralci creativi raccolti lungo la strada, nonché responsabile del mix e del mastering, il collega Peter Kember – in arte Sonic Boom, ex membro degli Spacemen 3, e co-produttore dell'album.

La premessa data da Tomboy, non eccezionale ma inspiegabilmente esaltata da buona parte della critica e da un pubblico quantomai entusiasta, resta in ogni caso una premessa, una causa. Per chi l'ha trovato un album oggettivamente cupo ma dimenticabile, la speranza è legata all'eccellente promessa dell'EP Mr Noah (uscito qualche mese prima del disco)  – tribale, viscerale e futuristico insieme.

Quanto all'aspetto concettuale, l'idea di fondo per questo nuovo quinto lavoro solista sarebbe una visione della morte più in quanto 'rinascita' e 'cambiamento' che come 'fine di tutte le cose': una visione quasi mistica, da cultori dei tarocchi e dello spirito, insomma. L'intenzione era quella di andare in direzione opposta rispetto all'oscurità delle tematiche di Tomboy, verso melodie più 'vivaci' e un sound più 'corposo'. Come dichiarato da Lennox durante un'intervista per Boiler Room, a proposito del titolo dell'abum: 'Non ho per niente avuto a che fare con la morte. Nessuna delle canzoni parla nemmeno di morte, non in senso letterario almeno. […] E’ più un voler presentare qualcosa con cui non ci troviamo a nostro agio in una veste un po’ più scherzosa, clownesca. […] Siamo costantemente costretti ad affrontare esperienze che ci permettono di cambiare, di diventare altro – di crearci una nuova identità.' Il titolo sarebbe in definitiva una spiritosaggine messa lì per sdrammatizzare un concetto 'più profondo' di maturazione, crescita personale, evoluzione spirituale – un buttarla sul ridere per l'imbarazzo di mostrarsi eccessivamente sofisticati o sensibili, quasi un vezzo. Un po' civettuolo Lennox conferma infatti che le distorsioni (sia testuali che musicali) hanno proprio lo scopo di impedire al disco di essere fin troppo 'predicatorio' o 'autoreferenziale': "The self-help sort of vibe worries me. But there’s a point where introspection turns into self-obsession or narcissism, so it’s always a very careful process to take the lyrical content and address stuff that was a lot bigger than myself" – e aggiunge:

Life is punctuated by these sorts of experiences. You settle into situations, you start to use them to define yourself and then the rug is pulled out from under you leaving you with nothing. A breakup or the death of a loved one, he says, can function as similarly stirring circumstance.

Effettivamente non si capisce bene in che modo queste tematiche siano di fatto presenti nell'album in sé, o almeno nei testi, ma c'è un tipico senso di disorientamento che in genere accompagna questo tipo di esperienze e che percorre l'intero disco, nel suo essere così concentrico e rarefatto, o per meglio dire fuzzy.

Apre Sequential Circuits: un'intro di ben 3'48" sciacquata in un mare elettrificato e generico in cui sfociano Mtv commercials, residui  pesanti di Mogwai e scorie di Radiohead, avanzi di Massive Attack e scarti di Moby, per un totale a somma zero che non rappresenta davvero nulla, se non un goffo tentativo di creare un effetto sorpresa a contrasto con la corroborante originalità del successivo Mr Noah, uno dei pochi brani veramente validi dell'album, a mio avviso. Forse autoreferenziale nel titolo, Mr Noah crea da subito, al primo ascolto, un tunnel ipnotico e psichedelico di loop sintetizzati e melodie stratificate, un caleidoscopio quadricromatico e mesmerizzante. Anche il testo è un vero e proprio 'traino': è l'ossessione compulsiva di un metaforico cane morso a una zampa che 'non vuole alzarsi dal letto a meno che non creda ne valga la pena', e che si dibatte nel suo labirinto mentale fatto di drip/drop, trip/trip, battle mind/gentle mind, every time/every time, mentre 'dentro di sé brucia come un incendio'. E' in brani come questo che si fa sensibile la presenza delle influenze preferite di Lennox, tra tutte Brian Wilson e il suo 'california vibe'. Peccato che la voglia di surf non si limiti a un singolo brano, e che la volontà di restare in camicia floreale e calzoncini si estenda anche a spiagge meno opportune per quasi l'intera durata dell'album, come se nel voler forzatamente cavalcare l'onda di una melodia fortunata o di un effetto sonoro 'preferito', si fosse sperato di poter smarmellare la stessa formula su tutti gli altri brani, ed equalizzarli così in qualche modo alla riuscita del cocktail originario.

Purtroppo non è questo il caso, e l'effetto finale ottenuto non è affatto sole e vento nei capelli, quanto la seccatura della sabbia nelle scarpe. Subito dopo Mr Noah, infatti, troviamo una specie di Sequential Circuits in versione ridotta, il filler Davy Jones' Locker – il cui armadietto pare nascondere però solo altri scarti da riciclare. Crosswords a questo punto si lancia senza un motivo preciso a fare stage diving come un pezzo qualsiasi degli Horrors, e pare non ci siano nemmeno molte speranze di trovare qualcuno a raccoglierlo: ritroviamo le stratificazioni di Mr Noah, le voci effettate e i loop, in un curioso siparietto che sa di pop pre-bellico, stile Barbershop Harmony Society. Questa fascinazione per le voci 'a cappella' e i canti simil-gregoriani era già presente in Tomboy e, in misura diversa, anche in Person Pitch (dove però la sperimentazione conosceva un più ampio respiro e i multilayer alla Beach Boys erano più un'eredità parziale degli Animal Collective e certo non l'attrazione principale dell'album). Probabile che in buona parte sia dovuta alla formazione musicale del giovane Lennox, che già durante il liceo suonava il violoncello e cantava da tenore nel coro da camera della scuola. Ancora più probabile che la forte attrazione verso i cori sia dovuta anche al suo percorso accademico, dove scelse di laurearsi in Scienze Religiose, causa profondo interesse per il 'concetto di Dio'. Fatto sta che anche PBVSGR, come Tomboy, è un album marcato da queste due caratteristiche un po' troppo preminenti: il barbershop e la voce effettata.

Puntualmente, Butcher Baker Candlestick Maker ribadisce il concetto, con la sua linea vocale amichevolmente pop adagiata su base dub riciclata probabilmente dall'ultima collaborazione di Lennox con i Daft Punk di Random Access Memories (ricordate Doin' It Right? Il coro gregoriano era suo!), e che richiama in parte le ispirazioni dichiarate a un certo tipo di musicisti anni '70, come Lee Scratch Perry, The Wailers o King Tubby. Si ritorna definitivamente in campo 'cori ecclesiastici' con Boys Latin, una specie di cantilena a tratti incomprensibile, senza dubbio ripetitiva, ma dal significato oscuro: 'Beasts don't have a sec to think, but / we don't appreciate our things, but / dark cloud descended again'. Più apertamente barbershop è invece Come To Your Senses, brano che sembra essere la risposta speculare a Mr Noah: un'apertura, un'elevazione per le domande irrisolte del cane depresso, che si interroga sulla follia ('are you mad?') e tuttavia persevera nel suo tormento:

You made a bunch you bet
And you'll make more
Go on make some more
But you won't
Nope you won't
Ever make that one again
You don't make that one again
Don't make that again
This is the last time
It's inside the one and all

Eppure Lennox è qualcuno che questo successo, questo 'making a bunch', se l'era da sempre sognato, l'aveva fortemente desiderato nei suoi sogni di autoproclamato 'dreamer':

I had two big dreams when I first started recording. I wanted to have a barcode on my records and I wanted to have a dedicated card with my name on it in a record shop—to not get sorted with the other miscellaneous Ps; that was good enough for me. And those dreams just seemed so large, but obviously I set my sights super low.

Tropic of Cancer torna a rendere omaggio alla scuola Beach Boys, con i toni surf pop rock che sembrano essere tornati di nuovo in voga: vedi gruppi come Best Coast, Wavves, e in misura minore Fleet Foxes o Grizzly Bear, oppure piccole citazioni, come ad esempio Nude Beach a Go-Go di Ariel Pink, o il glamour pop patinato di Lana Del Rey. E c'è da dire che Tropic of Cancer sembra proprio un pezzo di Miss Born to Die, editato a dovere per venire malauguratamente inserito in qualche videoclip pseudo-lynchano. Ancora filler con Shadow of the Colossus, mentre piuttosto noiosa si rivela Lonely Wanderer, che prende a prestito l'Arabesque no.1 di Debussy per farne un sample su cui ripetere una nenia senza senso ('What have you done? What did you do? Was it worthwhile?' ma che ce frega?). Ecco, se esistesse una definizione di 'autoreferenziale' in termini musicali, questo pezzo ci si siederebbe accanto, con la traduzione di 'pretentious bollocks' a fargli compagnia per l'ora del té. E intanto, in sottofondo, sprazzi digitali di suoni iperspaziali disseminati a caso, senza un perché. Se questo pezzo fosse autoironico potrei anche capire, ma il problema è che non sembra esserlo affatto: anzi, si prende estremamente, tremendamente sul serio. Principe Real ne è in parte l'irrilevante continuazione, mentre in sostanza riprende le sonorità probabilmente scartate durante la collaborazione con i Daft Punk, sperando che nessuno se ne accorga.

Ancora beachboyism in Selfish Gene, ancora ripetizioni, ancora loop, e la sgradevole sensazione che Lennox ci abbia gabbati tutti con un EP che pareva psichedelico e convoluto al punto giusto, ma che si sta rivelando alla fine quasi un esercizio di puro onanismo musicale. E cerebrale, con queste incursioni nell' 'inconscio' assolutamente non condivise con il pubblico, da cui ci si sente esclusi a causa soprattutto della matassa di metafore e simbolismi in apparenza innocui, ma che si risolvono in formulazioni del tipo 'Touch a hand, that ain't it /with a wig on, that aint' it', che si traduce appunto in un 'making noise, not making songs'. Ma immagino sia colpa mia e di pochi altri mentalmente inetti e ottusi, che non colgono le varie 'shades of cool', per dirla alla Lana. Arrivo ad ascoltare Acid Wash a fatica, e la trovo una brutta copia di Jell-O o Exile on Frog Street di Ariel Pink: inascoltabile, ma senza avere nemmeno la grazia salvifica dell'ironia tipica del nostro troll preferito.

Senza dubbio superiore a Tomboy, ma di quel tanto per cui si litiga tra fratellini a 8 anni per chi è più alto e di quante decine di millimetri, PBVSGR è come giocare a rimbalzino coi sassi sull'acqua, spesso senza farli saltellare affatto e fermandosi invece a contemplare i cerchi concentrici che ne risultano, in un'estasi da osservatori di ombelichi. Se è stato lo stesso Lennox a paragonare il fare musica al cucinare (in un'intervista con SPIN), per stare in metafora si potrebbe dire che stavolta il brodino è un po' insipido, la minestra è stata appena riscaldata, o come dicono i bretoni, 'That's weak sauce' – una salsetta debole. Ed è un peccato, perché per gli esperimenti vocali di Lennox soltanto si farebbe volentieri binge eating con minestra e patatine fritte, ma che resterebbero comunque accompagnate da quella stessa salsetta.