St. Vincent – St. Vincent (Recensione)

St. Vincent – St. Vincent (Recensione)

2017-11-08T17:15:46+00:0025 Aprile 2014|


St. Vincent self titled 2014
Annie Clark torna con un nuovo lavoro meno complesso dei precedenti, ma che riassume in una perfetta unita' la sua produzione fino a questo punto.

8/10


Uscita: 24 febbraio 2014
Republic/Loma Vista Records
Compralo su Amazon: Audio CD | Vinile

 

Si apre con i synth di Rattlesnake il quarto disco di Annie Clark, il primo a chiamarsi semplicemente St. Vincent, come se la polistrumentista originaria dell'Oklahoma avesse deciso di sottolineare che quell'austera signora seduta su quel trono maestoso, con quei capelli spettrali, è proprio lei, la stessa ragazza dagli occhi grandi che cantava candida Marry Me solo sette anni fa. E mai apertura fu più azzeccata: i tre minuti del brano di apertura rappresentano perfettamente non solo l'essenza del disco, ma anche tutto quello che Annie è in questo momento. Riff post punk, synth vorticosi, vocalizzi, una gran moltitudine di strumenti e di stili diversi: Rattlesnake svela la complessità strumentale in mostra nell'intero album, che magicamente riesce però a risultare comunque incredibilmente leggera e unitaria.

Uscito per la quasi-major Loma Vista St. Vincent, come già Strange Mercy (2011) è prodotto da John Congleton, e vede la collaborazione di due formidabili batteristi come Homer Steinweiss e McKenzie Smith. La scrittura della Clark è sempre eclettica e obliqua, ma siamo ben lontani dalla atmosfere sofisticate e arty di Strange Mercy, che nonostante le recensioni entusiaste risultava a tratti faticoso all'ascolto. La cantautrice americana continua a stupire, a cambiare ritmo e melodia all'ultimo istante, a creare degli intricatissimi puzzle musicali, eppure questa volta c'è qualcosa di più, o forse qualcosa di meno.

St. Vincent risplende di un magico equilibrio: l'immancabile triade chitarre-synth-voce ma anche corni, gorgheggi angelici, distorsioni, percussioni, tutto è sapientemente mescolato insieme per dare vita a un perfetto contrappeso tra groove e melodia. La sensazione è non tanto quella di un'artista che abbia rinunciato per una volta a cercare di superare i suoi limiti, ma di chi è arrivata a un livello di autocoscienza massimo: sa perfettamente cosa e come farlo, e lo fa splendidamente, tanto che le undici canzoni del nuovo disco sembrano composte in un estatico stato di grazia. L'eccesso e i momenti esageratamente laboriosi che nei lavori precedenti affaticavano a tratti l'ascolto, in St. Vincent lasciano il posto ad una perfetta unità, e questo nonostante la grande quantità di strumenti e di continui cambi di ritmo.

Così gli ottoni e il funk che nel disco realizzato insieme a David Byrne (Love This Giant) rendevano l'ascolto un po' pesante e corposo, donano a brani come Digital Witness una leggerezza pop e un groove irresistibile, tanto che in più momenti la voglia è quella di alzarsi e ballare. E' il ritmo il grande protagonista di questo disco: ne è un altro esempio Birth in Reverse, con l'amata chitarra elettrica distorta e i vocalizzi nervosi mentre Annie canta "Oh what an ordinary day, take out the garbage, masturbate".

Non mancano i momenti più delicati, come l'eterea Prince Johnny, o I Prefer Your Love, brano toccante ricco di archi dedicato alla madre, e nemmeno i ritmi più taglienti e bislacchi che fanno l'occhiolino al passato, come in Bring Me Your Loves in cui Annie ripete ossessivamente "I thought you were like a dog but you made a pet of me".

I testi sono meno surreali del passato e spesso più teneri, nonostante abbondino anche questa volta frasi taglienti e lucide analisi come in Digital Witness, geniale critica al mondo dei social network ("If I can't show it, if you can't see me what's the point of doing anything?"). Il mondo digitale torna nelle parole di Psychopath, anch'esso metafora dell'intero disco: il brano parte elettronico e ritmato grazie ai synth saltellanti e agli ah-ahs canticchiati, per poi aprirsi armoniosamente con archi, chitarre e un canto mai così etereo.

A chiudere il disco splendidamente è Severed Crossed Fingers, tre minuti di disarmante bellezza: con i suoi synth distorti, la chitarra elettrica pizzicata come se fosse un'arpa e i gorgheggi sognanti è un brano di pura melodia, di quelli che conquistano subito il cuore.

Tirando le somme di un lavoro così variegato, direi che in questo disco ci sono tutte le Annie Clark che abbiamo imparato a conoscere finora: la ragazza che suonava nella band di Sufjan Stevens, l'ingenua di Marry Me e quella più stravagante e arty di Actor (2009), per finire con la musicista ambiziosa che si è accompagnata al signor Talking Heads. Il risultato è un album psichedelico, rock, unitario e magnificamente luminoso, nel quale i brani sono così belli e perfetti che sembrano risplendere di luce propria. Insomma, nonostante i capelli da pazza non ci sono dubbi: quel trono è tutto suo.