Bob Dylan – Tempest (Recensione)

Bob Dylan – Tempest (Recensione)

2017-11-08T17:15:30+00:007 Settembre 2012|


Bob-Dylan-Tempest
A 50 anni dal suo debutto, Bob
continua a farci credere di saper
ancora scrivere una grande canzone.
Ma, chissa' perche', adesso non gli va.

7/10


Uscita: 11 settembre 2012
Columbia Records
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Se è vero che Dylan concede ancora un capolavoro al decennio, questo è il candidato. Più dei suoi tre scialbissimi predecessori, Tempest sembra possedere quella risonanza, quell’aura che proietta fuori dal tempo: l’epos. Come Time Out Of Mind trasfigurava il blues nel canto notturno di un dannato, Tempest trasmuta i ritmi della grande tradizione americana nel poema omerico di una società lì lì per affondare. E’ un disco compatto, con un impasto color sangue. Sì, sembra un classico. Cos’è allora questa delusione?

Saliamo in carrozza con Duquesne Whistle, un boogie che traghetta dritti alla frontiera, dove vivono i miti evocati dal nostro: fuorilegge, amanti traditi, assassini, una società sempre più pazza e l’ombra dell’apocalisse che si staglia sulle nostre teste. Il primo minuto stabilisce lo standard del disco: batteria febbrile, contrabbasso pulsante, chitarra satura e mercuriale, lampeggi di organo e gemiti di steel. In primissimo piano la voce, mai così luciferina e infida. Dylan intona i suoi recitativi con scarti di nota minimi, abile come un prestigiatore che conosce ogni trucco. Una produzione perfettamente a fuoco. Peccato che il songwriting non esca dai sentieri battuti. Da anni, ormai, il più grande cantautore della nostra epoca sembra godere nel dissolvere il suo genio individuale nei cliché della tradizione.

La stessa formula rallenta in Soon After Midnight, una ballata notturna eseguita con misura impeccabile. Forse la consolle di Lanois le avrebbe tirato fuori il pathos di Standing In The Doorway. Si riaccelera subito con Narrow Way, altro boogie anfetaminico: si potrebbe considerare quanto di più vicino a Tombstone Blues riesca a sostenere oggi questa voce imbolsita.

La prima uscita di carreggiata la tenta Long And Wasted Years. Su un tenero madrigale, Dylan latra un monologo da amante deluso: lo fa con quel suo tono caustico e sfrontato che un amico ha concisamente definito "voce da stronzo" ("Come back babe, did I hurt your feelings? I apologiiiiiiize"). Da istrione, infila pure un verso sulla sua abitudine d’indossare Ray Ban, vero brodo di giuggiole per feticisti.

Pay in Blood offre un brivido spinale, con una modulazione che incattivisce il ritornello. L'interpretazione è carica: il latrato del bardo si rabbuia, arrochisce, da’ soddisfazione. Scarlet Town è una ballata acustica, sinistra e sulfurea, esalatata dal meraviglioso violino di David Hidalgo. Segue Early Roman Kings, che a definire ripetitiva gli si fa quasi una gentilezza.

Se il disco finisse qui il voto sarebbe 6. La tripletta finale invece alza il tiro, colpisce a livello sottocutaneo, non fosse che per l’ambizione. Tin Angel innesta su un riff di un solo accordo (!) una narrazione di 9 minuti. I versi sono spezzati, anticipati, ritardati. Le cadenze appena accennate. Dylan è in grado di tenere l'ascoltatore appeso all'amo della narrazione, paralizzato in un’atmosfera di fatalismo da dramma shakespeariano. Meno convincente la title-track: l'affondamento del Titanic come nuova metafora dell'apocalisse è impostata su un'antica ballata irlandese. Non sai più se stai ascoltando la Carter Family o Dylan, e in che epoca sei. L'effetto straniante non salva la canzone, che dopo un po’ rischia di affondare pure lei, ma nella noia.

Primo e unico momento di commozione è la chiusura, Roll On John: una ballata con una melodia maestosa e accorata, un addio a Lennon che innalza il tono del disco verso arie più terse, ultraterrene.

Questa la musica, il resto è letteratura. I testi sono, da quel che si può intendere senza aver visto una trascrizione, raffinatissimi, e naturalmente obliqui: versi in opposizione, non sequitur, doppiette di rime che cortocircuitano. Il citazionismo abbonda, dai versi di Lennon ad un "get up stand up" scandito proprio come nella canzone di Bob Marley… o è una coincidenza? Ambiguità. Questo, in fondo, è il vero genio di Dylan: spostare il significato sempre oltre. Quando non lo fa con ispirazione, che è concessa a discrezione delle Muse, lo fa con stile.

Ed é questo il caso. L'unica arte rimasta a Dylan, oggi, é quella della negazione: sottrarsi, scartare di lato, mettersi in controluce, dare sempre l'impressione di. Dominare l'ascoltatore alimentandone il desiderio. Dylan sopravvive nella dimensione di un avvento sempre annunciato, sempre rimandato. Allusione continua, che diventa illusione. L'illusione è che sappia ancora scrivere una grande canzone, una di quelle. Ma, chissà perché, adesso non gli va. Eppure era nell'aria, te l’ha fatta annusare per un disco intero…

Bob, viene da dire, togliti la maschera. Ma, risponde per lui il Danton di Buchner, forse verrebbe via anche la faccia.