PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project (Recensione)

PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project (Recensione)

2017-11-08T17:15:43+00:0021 Novembre 2016|


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Dopo Let England Shake, PJ Harvey si concentra sugli orrori moderni e trova uno sguardo lucido ma pieno di empatia per parlare dei suoi viaggi in Afghanistan, Kosovo e Stati Uniti.

7/10


Uscita: 15 aprile 2016
Island Records
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Chi dice che il rock non è più il genere di denuncia e ribellione sociale per eccellenza non ha ancora ascoltato l’ultimo progetto di PJ Harvey. Registrato alla Somerset House di Londra sotto gli occhi degli spettatori, durante un'innovativa performance artistica che ha rinchiuso per un mese Polly e i suoi collaboratori (tra cui gli italiani Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e Alessandro 'Asso' Stefana dei Guano Padano) in uno studio di registrazione dalle pareti di vetro, The Hope Six Demolition Project è un progetto musicale ideato, studiato e realizzato nei minimi dettagli, dagli strumenti impiegati alle parole dei testi. Il disco segue la strada dell'impegno sociale già messo in luce da Let England Shake (2011), ma con una fondamentale differenza: mentre in quel caso si usavano gli orrori del passato (l'Inghilterra coloniale, la prima guerra mondiale) per parlare del presente, gli orrori di cui parla questo nuovo lavoro sono tutti attuali, e quindi ancora più terribili.

Un album ricco di sonorità, corale ed orchestrale, per il quale l’artista britannica si è affidata ai suoi ormai fidati collaboratori John Parish e Mick Harvey. Un album anche pieno di spunti di riflessione, a partire dal titolo: The Hope Six Demolition Project si riferisce a una serie di programmi chiamati proprio “HOPE VI”, intrapresi dal governo americano per ripulire e abbellire quelle aree e quei quartieri di Washington affetti da un alto tasso di criminalità, donando da un lato strutture migliori, ma privando dall’altro la popolazione delle sue abitazioni e degli ambienti autentici in cui erano fino ad allora vissuti. Il disco si ispira infatti ampiamente ai testi scritti dalla Harvey per il suo libro di poesie The Hollow Of The Hand, rielaborando gli appunti dei suoi viaggi in Kosovo, Afghanistan e a Washington, intrapresi tra il 2011 e il 2014 insieme al fotografo Seamus Murphy e al giornalista Paul Schwartzman del Washington Post.

Gli effetti del progetto “HOPE VI” vengono citati già in apertura della prima traccia: scelto dalla cantante come secondo singolo estratto dall’album, The Community of Hope ha destato da subito molte polemiche da parte del mondo politico americano, per i suoi riferimenti molto diretti al quartiere Ward 7 di Washington. La Harvey cita infatti alcune strutture che hanno rimpiazzato la vita del quartiere, come la Homeland Security Base e perfino un supermercato della nota catena americana Walmart. La batteria sembra guidare gli altri strumenti in una marcia energica, mentre la voce di Polly sembra quella a capo di un gruppo di protesta “musicale”, che esplode nel coro finale, ripetuto: “They’re gonna put a Walmart here”.

A guidare la marcia politica-musicale nel secondo brano The Ministry Of Defence sono invece la chitarra e, di nuovo, la batteria che ora in perfetto sincrono marciano idealmente davanti al ministero della difesa in Afghanistan, o quello che ne rimane, “The Ministry of Remains”. Giornali, coltelli da cucina e fantasmi di ragazze che si nascondono: uno scenario quasi apocalittico, con un suono di sottofondo, sul finale del pezzo, di un sassofono quasi distorto, come un grido umano disperato e straziante, che alimenta la suspense e la tragicità della scena. A Line In The Sand ha sonorità simili a quelle di una ballata popolare, nordica a tratti, in cui la voce della Harvey spazia gradualmente da tonalità basse fino al falsetto, specialmente nel ritornello. In questo modo sembra voler dare risalto ad alcune parti del brano in cui si parla di persone uccise a mani nude, “Seven or eight thousand people / Killed by hand”. Un brano certamente di riflessione: “What we did? / Why we did it?”, cos’abbiamo fatto, perché l’abbiamo fatto, sono le domande che sembrano tormentare il narratore e, per esteso, tutta la nostra società. Una vera e propria marcia militare-musicale, intrisa di blues, è quella di Chain Of Keys, dove protagonista è di nuovo la batteria, con tanto di rullo di tamburi. Accompagnata da un coro, la cantante descrive un incontro reale avvenuto durante il suo viaggio in Kosovo con una donna che stava custodendo le chiavi di casa dei suoi vicini, morti probabilmente in guerra. Un coro maschile fa da rinforzo, in risposta alla Harvey, come un gruppo di soldati al suo comandante.

Torniamo a Washington con River Anacostia: qui siamo accompagnati dal ritmo incalzante di un singolo tamburo e di una chitarra in sottofondo, insieme a un coro maschile. Sul finale è quest'ultimo elemento a divenire centrale, con la ripetizione dei versi “Wade in the water / God’s gonna trouble the water”, tratti da un canto spiritual afroamericano, usato dagli schiavi che erano costretti ad attraversare i fiumi per potersi muovere e spostare da una parte all’altra della città. Il brano più corale è sicuramente Near the Memorials to Vietnam and Lincoln. Siamo ancora a Washington D.C., vicino ai due monumenti principali della città, uno dedicato ai soldati caduti durante la guerra in Vietnam, l’altro al presidente Abraham Lincoln. Il ritornello contribuisce a dare l’impressione di trovarsi ad una celebrazione, come s’intuisce dai versi “See the people coming / They're moving over the grass / To squeeze in two plastic chairs”, con canti, brani orchestrali e una chitarra di sottofondo che interrompe le strofe a metà, lanciando quello che sembra un grido o, perché no, un allarme, per richiamare l’attenzione dei presenti.

Sonorità tribali e una voce a tratti sensuale guidano The Orange Monkey, scelta come terzo singolo dell’album. Qui PJ Harvey sembra voler spiegare le intenzioni che hanno portato alla stesura del disco: “An orange monkey on a chain / On a bleak uneven track / Told me that to understand / You must travel back time / I took a plane to a foreign land / And said, "I'll write down what I find"”. La scimmia arancione, quasi come un elemento sovrannaturale, suggerisce alla cantante come dar voce alla sua “vocazione”. Sempre a Washington, un sassofono costante accompagna la cantante nella sua riflessione sui medicinali (nel brano Medicinals), mentre cammina sul National Mall. Le piante medicinali che un tempo crescevano qui naturalmente si rifanno vive chiamandola e creando un'atmosfera quasi magica, prima che la strofa finale riporti tutti con i piedi per terra: una donna, probabilmente alcolizzata, beve da una bottiglia avvolta in un sacchetto di carta, ed è questo l'unico medicinale fornito dalla società moderna. Il blues di River Anacostia si rifà vivo su The Ministry of Social Affairs: un sassofono qui è protagonista dall’inizio fino alla fine del brano, insieme al campionamento di un vecchio brano di Jerry McCain: “That’s what they want / Oh yeah / Money honey”.

Si arriva quindi a The Wheel, primo singolo estratto da The Hope Six Demolition Project: un brano decisamente energico, dove il ritmo è scandito, oltre che dalla batteria, dal battito di mani e da una chitarra che accompagna la cantante nella presentazione di uno scenario apocalittico in Kosovo. I protagonisti qui sono tutte le persone, in particolare bambini, scomparsi durante la guerra balcanica: 28.000 persone, come ricorda il ritornello, e non si può fare altro che "guardarle scomparire" (Watch them fade out), come i bambini che giocano su una giostra, scomparendo periodicamente dalla vista della narratrice. Infine, Dollar, Dollar, il brano più intimo ed emozionante dell’album che è stato volutamente lasciato in chiusura, a testimonianza dell'interesse della Harvey per le vittime della nostra società, in particolare i più deboli. Polly descrive un momento particolare del suo viaggio in Afghanistan, quello in cui incontra un bambino mendicante che la osserva oltre il finestrino della sua auto. Pochi strumenti di sottofondo alla cantante, il suono di un synth, qualche colpo di tamburo e poi l’ormai consueto sassofono che prende il posto della voce, mentre in apertura e chiusura ascoltiamo le voci di alcune persone che gridano in arabo per strada, tra cui proprio un bambino.

Coralità, sensibilità e cura per il dettaglio: queste sono le tre caratteristiche che meglio descrivono il nono album di PJ Harvey. The Hope Six Demoltion Project è un progetto di grande umanità, un disco di impegno civile che la quarantasettenne del Dorset ha portato avanti come fosse l'espressione di una vocazione umana e musicale.


Mercoledì 23 novembre parleremo della seconda fase della carriera di PJ Harvey nel corso di un incontro che si terrà alle 19:30 presso la libreria Limerick di Padova: sarà l'occasione per ascoltare brani a partire dal 2000 fino al 2016, accompagnati dalla visione di filmati d'epoca e intervallati da curiosità e aneddoti. Qui c'è la pagina Facebook dell'evento: non mancate!