Iceage – Plowing Into the Field of Love (Recensione)

Iceage – Plowing Into the Field of Love (Recensione)

2017-11-08T17:15:46+00:0017 Novembre 2014|


Iceage Plowing Into the Field Of Love
La giovane band danese torna con un album magnificamente denso, nel quale e' sempre piu' evidente la sua capacita' di sublimare i sentimenti umani piu' cupi e contraddittori.

8,5/10


Uscita: 7 ottobre 2014
Matador Records
Compralo su Amazon: Audio CD

 

"Gli Iceage sono una band post-punk noise-rock danese con un sound incredibilmente oscuro e tetro, che flirta un po' anche con il goth-rock. Fino ad ora hanno prodotto due album eccezionalmente abrasivi, distruttivi e depressivi [l'LP di debutto New Brigade del 2011 e l'ottimo You're Nothing del 2013 – ndr]" – così li definisce a ragione Anthony Fantano in una delle sue recensioni sul portale The Needle Drop.

A caratterizzare il loro sound, una sorta di ipercinesia, un eccesso energetico catalizzato con sapienza lucida nella produzione di brani dalla carica punk ma dal taglio più clinico del post punk/new wave. Per questo nuovo lavoro, Plowing Into The Field of Love, avevano annunciato l'introduzione di accompagnamenti strumentali e di una maggiore ricchezza sonora, che possiamo adesso pienamente apprezzare. 

Da un angolo della copertina sbuca una gamba poco sexy, secca e in apparenza perfino pelosa, tacco a spillo nero: sembra fare un autostop vecchia maniera per gli automobilisti da vinile, per chi guarda. Ma sbirciando ancora oltre le fronde di una palma messa lì improbabilmente ad arte, si tratta di persona svenuta o in fin di vita, un orrore esotico, natura morta su parquet economico – e attrae morbosamente l'attenzione per un dettaglio singolare, la scarpa di diverse misure più grandi. Cosa che caratterizza solitamente gli adolescenti in crisi d'identità sessuale (o agli albori delle certezze sulla stessa, a seconda dei punti di vista), che indossano in segreto gli abiti della mamma per capire 'cosa si prova' a essere donna. La scena è proprio quella di un crimine, e proprio ai danni dell'identità, in una ricercata confusione che è stata confermata dagli stessi Iceage in una recente intervista a Pitchfork, quando hanno svelato che la gamba appartiene al fratellino di uno di loro, protagonista di una photo session improvvisata dell'ultimo minuto.

La precisazione a questo punto necessaria da fare, è sull'estrema ambiguità 'semantica' che ogni elemento ha nell'immaginario-Iceage.

if i could leave my body then i would

Il giovane Elias Bender Rønnenfelt – frontman, spesso additato dai media come il nuovo Ian Curtis – è uno che si lascia volentieri trovare mentre legge Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez, oppure mentre dichiara su Facebook il suo apprezzamento per Yukio Mishima (autore giapponese ingiustamente accusato di filo-fascismo, ma essenzialmente un romantico patriottico decadentista) e per la Queer Jihad – un movimento volto alla liberazione dell'individuo dalle imposizioni e dalle etichette sociali, allo svincolamento da modi di vivere e pensare socialmente 'accettabili', all'affermazione dell'essenza 'queer', non più come 'stranezza', ma come nuova forma di normalità appunto 'liberata'. Se a questo aggiungiamo diversi 'indicatori' di omosessualità, come foto che lo ritraggono in compagnia di coetanei in atteggiamenti apertamente sensuali e affettuosi, mixati con elementi appartenenti alla simbologia neo-nazista (i cappucci del Ku Klux Klan comparsi in alcuni video, le spillette e lo stemma runico di Burzum ripreso nel simbolo simil-nazi-massonico della band, un tatuaggio dei Death in June – da sempre discutibilmente associati all'estremismo nero, i saluti sieg heil dal pubblico durante i live o l'esibizione di 'certi brand' notoriamente cooptati da una 'certa destra') per i quali la band è stata più volte tacciata di 'chic-racism', il quadro che ne esce è decisamente curioso. O, come direbbero gli inglesi, quantomeno puzzling. Tanto più se si prende in considerazione che il batterista Dan Kjaer Nielsen è ebreo. Ma ad un'analisi più attenta, è proprio nella contraddizione che risiede lo spirito di questi quattro ragazzi danesi, un pensiero critico in via di maturazione, che al momento si serve degli strumenti più popolari a disposizione per veicolare messaggi di provocazione, decidendo di rimanere vaghi nella controversia mentre flirtano con l'intero suo immaginario estetico, e divertendosi a registrare le reazioni provocate in pubblico e critica.

"I wouldn't dismiss great writers such as Knut Hamsun, Yukio Mishima Yukio Mishima or Louis-Ferdinand Céline just because they have fascist sympathies. Taking interest in the somewhat depraved is not a bad thing. I like the music of Charles Manson too, so am I in support of murder now?"

Elias e compagni sono in fondo degli intellettuali, e non evitano di nasconderlo, anzi. L'impressione è che vogliano invece piantare beffardi questa bandiera della supposta superiorità intellettuale con cupo sconforto sul territorio musicale, non senza un certo cinico senso dell'umorismo, come il vessillo nero baudelairiano che annuncia l'incombere della marcia funebre nei giovani cuori della nuova Europa sulla via del declino.

E' così che fa la sua entrata On My Fingers, esattamente come quella marcia funebre: sconsolata, ma trionfale nel suo disfacimento, con quella piacevole lentezza roca che fa pensare 'ecco, sono loro, arrivano gli Iceage', sul loro carro più funebre che trionfale, appunto. Si è parlato molto di 'egocentrismo' riguardo ai testi di questo nuovo album, come se Rønnenfelt avesse avuto molto da pensare in seguito alla crescita proporzionale del successo e all'evoluzione sua e della band, dal momento che ad accoglierli c'è sempre stato plauso da parte della stampa e un immediato senso di appartenenza da parte del pubblico, ma anche molte critiche e incomprensioni per il supposto 'immaginario filo-nazista'. E loro, per provocare, mettono in discussione questo stesso traguardo: siete davvero così sicuri di amarci per le giuste ragioni? E v'è del dubbio critico non solo verso sé stessi, ma nei confronti dello stesso adorante pubblico, in particolare quello con le teste rasate e il braccio teso, l''hypocrite lecteur'.

Though I am a taker, an opportunist
I’ve got longings no offer can stand
Take a good look here
Marvel at this stunner of a being so profound
He must be our saviour […]
I always lied to you, did you not know
And I’ll put you in manacles, doesn’t it show
Little bird land on my fingers
I will place a stone on each of your hostile wings

La conferma dell'elevato livello lirico di questo album arriva con il singolo The Lord's Favorite: la fama, il vino da cento euro, tutto ciò con cui si possono comprare piaceri comuni e terreni, e persino una mano (e non un braccio) tesa in aiuto per le umane solitudini, "A naive, open wounded exchange of stories that transforms us". In una recente intervista a Pitchfork, Elias ha spiegato: “You could say that we played the whole ‘lead singer’ aspect up a little bit…and part of me wants to be a pop star”. Ma quello che potrebbe sembrare un 'complesso del Messia' è in realtà qualcosa di più complicato, visto che aggiunge: “A lot of the songs sound more positive, or more forward-chested, but [they] deal with states of lying to yourself and being confused about how you're actually feeling. You think you've got it figured out, but it's not reality”.

Lo stile è quello del Nick Cave giovane, quello dei Birthday Party, insieme a quello del suo amico Blixa Bargeld degli Einstürzende Neubauten, lo stile dell'artista punk intellettuale, del crooner dissoluto con humour e ghiaccio sul palco. Evidente in questo caso il gioco di parole presente nel video di The Lord's Favorite, dove troviamo due dadi nel bicchiere da cocktail al posto dei cubetti: d-ice. E sorseggiamo fatalità.

How Many raggiunge la perfezione del Bender Rønnenfelt poeta e degli Iceage in quanto band che ha davvero qualcosa di interessante da dire musicalmente. Un pianoforte scordato di sottofondo e una quasi batteria di pentole a tratti accompagnano un brano dalla struttura classica e dall'impatto elegante, su cui poggia un testo estremamente lucido nell'illustrare la dicotomia mente/corpo come un eterno susseguirsi di tentativi di riconciliazione mal riusciti, e che fornisce la chiave di lettura per l'intero album e il suo titolo: una difficile avanscoperta sentimentale costellata di pregiudizi altrui e ideali utopici propri, l'espressione del sé percepita qui come splendore, altrove come un miserevole 'non essere all'altezza'.

Trapped in a body that doesn't act on thought
I have a sense of utopia
Of what I truly ought to do
Born onto the tide
Is it really any wonder that I’m here like this
An alliance in body and mind
Such a perfect lover i could become

A seguire, la struggente Glassy Eyed, Dormant, and Veiled, che esaspera i toni lirici di How Many, senza assopirli ma semmai trasportandoli in una dimensione distorta di sogno, su cui viaggiano insieme alla presenza lieve della tromba e di un'interessante costruzione di scala musicale sapientemente interrotta da rulli di batteria. Il livello eccezionalmente elevato di grazia si mantiene – e si direbbe, resta – in Stay, una ballata greve in cui ascoltiamo Bender contorcersi sulle parole, e un banjo appena pizzicato a completare le pennellate di un quadro rimbaudiano, dove ritroviamo quella medesima poetica di vino, gioventù, dissolutezza e languore, mixati insieme nell'approccio moderno del taglio nordico danese, e nel realismo dei nostri tempi, ancora più disincantati. Il tutto si esaspera nei toni di Let It Vanish, incalzanti nel passo militare e distruttivo delle chitarre sostenute, delle batterie a cavallo, e della pronuncia così danese da lasciare il gusto dello scherzo a immaginare un 'let it danish'.

Similmente fa Abundant Living, che sembra quasi la prosecuzione del brano precedente, ma si assesta su melodie più punk, con echi à la Clash e Sonic Youth, riprese poi nella chitarra e nei suoni di Forever – ballata intensa il cui pathos, accentuato dalla presenza di archi, ricorda vagamente nel suo crescendo quello degli Einstürzende Neubauten di Die Wellen, anche per la tematica dell'oceano come simbolo del divino – sdrammatizzato però nel finale dall'ingresso di trombe quasi balkan-rock. “It's not about a split personality” – spiega Rønnenfelt in un'intervista a The Fader, a proposito del brano – “It's about how the world will look one way in a state of bliss and one way for the opposite. It's written from the perspective of the opposite—longing for the other one".

In Cimmerian Shade ritroviamo molto dei Birthday Party di Cry (da Prayers On Fire del 1981) e dei Gang Of Four di Entertainment! – tanto che forse risulta essere il pezzo meno originale dell'insieme. Per rimanere in tema di richiami/citazioni, anche Against The Moon pare rifarsi a quell'ampia corrente punk-jazz che comprende molti altri sottogeneri dai contorni sfumati, e che va da Morrissey ai Penguin Cafe Orchestra, fino ad arrivare al contemporaneo King Krule. Ma il pezzo, a questo punto, ha il preciso scopo di ribadire alcuni concetti espressi nel corso dell'album, e riaffermare il dubbio nutrito nei loro confronti:

Whatever I do
I dont repent
I keep pissing against the moon

La frase, presente nel ritornello, è quella di un celebre proverbio olandese, ripresa dal pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio in alcune delle sue opere, come puzzle simbolista da risolvere per l'osservatore. 'Pisciare contro la luna' è una metafora popolare per indicare un'azione inutile, priva di senso. Ed è esattamente di questa vanità che si conferma fiero Rønnenfelt, della ricerca estenuante di questa cosa chiamata 'Amore' che tutti perseguiamo, nonostante la sua razionale inutilità. Interessante a tal proposito il titolo del brano successivo, Simony. La simonia era nel Medioevo la compravendita di cariche ecclesiastiche, e il termine viene più generalmente utilizzato per indicare l'acquisizione di beni spirituali in cambio di denaro, nonché l'accumulo di profitto ricavato da un bene sacro – come l'amore, in questo caso.

La title track che chiude l'opera è come l'ultima sigaretta della giornata, quella che fa riflettere un'ultima volta su tutto, prima di andarsene a dormire. E dopotutto, una boccata dopo l'altra, ci si rende conto dell'irrilevanza di alcune cose, della relativa importanza di altre, dei pattern degli eventi, dell'inevitabilità, della finitezza delle cose del mondo, della grandezza del cosmo, e della nostra brutale limitazione terrena, del 'dopotutto', perché tanto alla fine 'They will place me in a hearse'.

L'ascolto si fa a questo punto un po' sfiancante, specialmente per l'intensità dei temi e per la densità sonora, la quale porta con sé una certa gravità che non ti aspetteresti di ritrovare nella musica prodotta da quattro giovani ragazzi poco più che ventenni. Eppure Plowing Into The Field of Love è un album magnificamente DENSO, si direbbe quasi letterario per la sua intricata complessità e per la finezza esecutiva, che – come succede per un buon romanzo – non fanno altro che esaltarne l'impatto emotivo. Non è un album di facile ascolto, e andrebbe assaporato come una madeleine, come un dolcetto proustiano, annaffiato da vino da cento euro o da birra discount. L'evoluzione e la maturazione della band sono evidenti, come evidente è la loro capacità di sublimare ad arte la sfera più cupa e contraddittoria dei sentimenti umani, specialmente quando più acerbi e post-adolescenziali: dalla frustrazione all'insicurezza, dalle crisi d'identità al senso di alienazione e inadeguatezza, fino a quello di totale incertezza per il futuro, mascherata da totale certezza in sé stessi. Pertanto quando lo stesso Rønnenfelt dichiara, a proposito dell'LP, “I think we accomplished making a fantastic and very important piece of culture” bisogna riconoscergli che ha – a suo modo – ragione.