Iggy Pop – Post Pop Depression (Recensione)

Iggy Pop – Post Pop Depression (Recensione)

2017-11-08T17:15:44+00:0021 Giugno 2016|


Iggy Pop Post Pop Depression Josh Homme
Con l'aiuto di Josh Homme, il 69enne Iggy Pop sforna uno dei dischi migliori della sua carriera solista, ricco di spunti di riflessione, ritmi incalzanti e sonorita' rock decise e compatte.

8/10


Uscita: 18 marzo 2016
Loma Vista Recordings
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Post Pop Depression è la prova che con Iggy Pop non bisogna mai giocare la carta dei luoghi comuni. 69 anni d’età e 45 di carriera non hanno scalfito in alcun modo l’Iguana, né hanno impedito che cambiasse colore: basta già dare uno sguardo alla cover dell’album, dove sembra non voler abbandonare il suo torso nudo in segno di ribellione, coperto solo dalla giacca di pelle che indossano anche gli altri membri della band che compaiono al suo fianco.

In questo suo nuovo lavoro, Iggy è accompagnato da un altro grande animale del rock, Josh Homme, in veste di produttore e co-autore dei brani. Eppure, la chiamata alle armi non è arrivata solo al leader dei Queens of the Stone Age, ma anche a Dean Fertita – polistrumentista, anche lui nei QOTSA e nei Raconteurs al fianco di Jack White – e a Matt Helders – batterista di un altro grande gruppo rock degli ultimi anni, gli Arctic Monkeys.

Sarà pure un album di uscita dalla “depressione” – i precedenti lavori di Iggy Pop non hanno raccolto grande successo, l’ultimo una raccolta di cover dal titolo Après (2012) e prima ancora Preliminaires (2009) – eppure Post Pop Depression unisce magistralmente in nove tracce le esperienze musicali dei due protagonisti principali, con sonorità e ritmi rock più attuali. Registrato in gran segreto a partire da gennaio 2015 presso gli studi di Joshua Tree e Burbank, già dalle sue prime tracce l’album riecheggia i deserti e le strade sconfinate della California, scenario abituale per Homme ma decisamente inedito per l'ex frontman degli Stooges, decisamente più a suo agio tra i vicoli luridi di Detroit.

La prima traccia è Break Into Your Heart, brano presentato in anteprima radiofonica dopo l'uscita del primo singolo. Ritmo incalzante, ripetuto, dove la chitarra fa da eco a una voce che sembra venire dal sottosuolo, quasi a maledire l’ascoltatore con quel ritornello “I’m gonna break into your heart / I’m gonna crawl under your skin”.

Gardenia è il primo singolo ufficiale: una ballata rock dedicata a una ragazza, chiamata proprio Gardenia, all’apparenza una donna di strada, tanto bella e sensuale quanto velenosa. Lo capiamo quando Iggy nella parte finale della canzone recita “You could be burned at the stake”: sensualità e ironia racchiuse in un unico brano.

Terza traccia dell’album, American Valhalla, sembra essere stata inizialmente proposta da Josh Homme e accolta con grande curiosità da Iggy, che da quel momento ha iniziato a domandarsi se davvero esiste un “valhalla americano”, un paradiso anglosassone per il mondo americano. Quest’incertezza risuona infatti nel brano, così come l’esistenza di una presunta innocenza: le tastiere, che potrebbe quasi suggerire delle sonorità orientali all’inizio, vengono in seguito coperte e sovrastate dai bassi, come fossero le porte dell’inferno che incombono a portare via l’innocenza dell’uomo, spoglio ormai di tutto, tranne che del suo nome. “I’m nothing but my name” è l’inciso che più ricorre nel testo.

In the Lobby riprende le sonorità di alcuni brani dei QOTSA, come I Sat by the Ocean, contenuto nell’ultimo album della band, Like Clockwork. Qui si fa sempre più forte la paura costante di perdere la vita: l’idea sviluppata è quella di allontanarsi dalla luce, per seguire il buio e la propria ombra. E quella luce potrebbe forse essere quella di un riflettore? È certo un’ipotesi a sostegno di una delle voci più insistenti che hanno accompagnato l'uscita del disco, ovvero l'idea, diffusa nelle interviste dallo stesso Iggy Pop, che questo possa essere il suo album di congedo.

Segue poi il secondo singolo estratto dall’album: in Sunday la batteria è centrale, per la gioia dei fan degli Arctic Monkeys. Si tratta di un brano sull’entusiasmo per l’arrivo della domenica, dopo una settimana di lavoro passata ad eseguire ordini a catena, come suggerisce la ripetizione di molti versi, quasi fosse il ritmo incalzante dei macchinari all’interno di un’industria. Il finale orchestrale sembra quasi drammatico, accompagnato da una voce femminile che ripete i versi “Got all I need and it is killing me and you”.

Vulture è invece un brano “cinematografico”: ascoltando la chitarra acustica che regge la struttura del pezzo sembra di poter vedere due duellanti che sul ritornello si sfidano, forse due cowboy, o, perché no, un cowboy contro un avvoltoio, che in questo brano è simbolo del male. Il brano si chiude con un lamento, come fosse il canto o il grido di guerra di un indiano che affronta un cowboy, per proteggere la sua terra.

A questo punto abbiamo già incontrato molte delle "facce" del personaggio Iggy Pop, ma manca ancora quella ribelle e anticonformista, che arriva puntualmente con la successiva German Days, una critica al lusso ostentato che tira in ballo la Germania giocando sull’assonanza delle parole “germinate” e “german”. Un brano vagamente blasfemo, in cui Iggy accosta Berlino e Cristo, lo champagne e il ghiaccio. (“Berlin and Christ / Champagne on Ice”).

Ritorna l’idea, nonché il desiderio, di volare via, di abbandonare un posto: Chocolate Drops è il brano più empatico, in cui il cantante sembra parlare a un ideale ascoltatore-amico, suggerendogli di non mollare, anche quando un nemico o la solitudine hanno la meglio su di lui. Il concetto di fuga torna anche nella traccia di chiusura Paraguay: la fuga in questo caso è verso un posto senza pensieri come il Paraguay – di nuovo, un gioco di assonanza questa volta con la parola “goodbye”. Luogo di fuga, dal tempo, dalla mondanità, dalla fama, luogo in cui fuggire, senza chiedersi perché: “Wild animals they do / Never wonder why / Just do what they goddamn do”. Non è solo un brano in cui elogia la fuga come miglior scelta, ma una denuncia della paura come limite degli uomini e invettiva finale contro la società e la tecnologia che ha preso il posto degli esseri umani. Il tutto in una formula, già usata anche in Gardenia, in cui Iggy sembra recitare veri e propri versi d’invettiva in un discorso in cui è sovrastato dal coro, insieme a una batteria che si fa sempre più protagonista del brano.

Un album decisamente ricco di spunti di riflessione, di ritmi incalzanti e sonorità rock decise e compatte, di forte impatto. Iggy Pop con questo suo ultimo disco sfrutta al meglio il lavoro di un produttore d’eccezione e suo ammiratore, che gli fornisce una serie di spunti per uscire dal cul-de-sac in cui è piombata la sua carriera negli ultimi quindici anni. Insomma, nell'anno in cui il suo vecchio amico David Bowie se ne è andato lasciandoci lo splendido Blackstar, se Post Pop Depression fosse davvero l’album di congedo del signor James Newell Osterberg Jr., si tratterebbe anche in questo caso di un’uscita di scena in grande stile.