Indiemood Sessions Vol. 4: Lil Alice

Indiemood Sessions Vol. 4: Lil Alice

2014-11-17T22:08:11+00:0017 Novembre 2014|

 

E sono quattro: con il clip che trovate qui sotto siamo già arrivati al quarto appuntamento delle Indiemood Sessions, gli esclusivi video realizzati da Indiemood Press Office per Gold Soundz, che ogni due settimane ci fanno scoprire i nuovi talenti della musica indipendente italiana.

Con questo appuntamento di metà novembre ospitiamo per la prima volta una cantautrice: la veneziana Lil Alice gioca in casa e pare decisamente a suo agio mentre suona la sua Leadbelly su una barca a spasso lungo i canali di Venezia.

A seguire, subito dopo il video, potete come al solito scoprire qualcosa di più sull'artista nella nostra intervista. Se invece volete rivedere le puntate precedenti, vi consigliamo di recuperare le apparizioni di The Burlesque, Quiet Confusion e La banda del pozzo!

Ciao Alice, intanto complimenti per il tuo lavoro. Parlaci di come è nato il progetto Lil Alice e da quanto tempo va avanti.

Grazie! La genesi del progetto è una storia che va un po’ indietro negli anni… Dunque, nella primavera del 2008 un pomeriggio assistetti alle prove del progetto one-man-band (allora embrionale) del chitarrista di uno dei gruppi in cui suonavo in quel periodo. Ne rimasi profondamente colpita, soprattutto per l’energia che sprigionava vedere una persona suonare più strumenti contemporaneamente. Pochi mesi dopo, vidi un concerto di Bloodshot Bill, fenomenale con il suo show in completa solitudine del tutto originale. Decisi allora che avrei potuto realizzare in qualità di one-woman-band tutte le canzoni che avevo nel cassetto da tempo e che non avevo mai proposto ai miei gruppi all’epoca. Così fondai la Maria Antonietta One-Blues-Woman-Band. Il progetto, un po’ per timidezza, un po’ perché mi concentrai in altre attività musicali, rimase solo inciso su metri di nastro audio e non fu mai portato in concerto. Solo più tardi, nel 2012, ho deciso di riesumare quelle canzoni e di dargli una forma. L’incontro con Matteo Tabacco nel suo studio di registrazione (Raptor Recording Studio) è stato la scintilla da cui tutto ha preso il via, e tra il 2012 e il 2013 ho registrato otto brani, che costituiscono il mio album d’esordio. I pezzi sono stati arrangiati con uno sguardo più maturo e da questa evoluzione interiore e personale ho cambiato il nome in Lil Alice.

Come molti artisti del panorama underground, generalmente suoni da solista, anche se in fase di registrazione ti avvali della collaborazione di altri musicisti. Ecco, spiegaci il perché di questa scelta. Credi che avere una formazione “allargata” e sempre in cambiamento favorisca un maggior livello di condivisione tra i musicisti?

La scelta di suonare con altri musicisti in studio è stata dettata dal fatto che l’aggiunta di altri strumenti avrebbe dato maggior completezza alle canzoni. Diciamo che allargare la formazione, qualvolta sia possibile, è funzionale in primis alla mia esigenza di poter creare paesaggi sonori più ampi grazie all’introduzione di altri strumenti, ma anche a proporre dei live diversificati e, certamente, anche a  condividere la passione e l’esigenza della musica anche con altri musicisti che, generalmente, sono amici.

Le tue sonorità si muovono dentro un genere ben codificato, ma allo stesso tempo molto vasto e ricco di sfumature, cioè il blues. Quali artisti hanno influenzato di più la tua crescita e il tuo percorso musicale?

Ascolto molti generi musicali diversi tra loro. Adoro il blues e il rock’n’roll anche nelle loro varie sfumature, e tutta la musica classica occidentale. In particolare mi piacciono i ritmi incalzanti del jazz, i tremoli e i riverberi degli anni ’50, il romanticismo di PJ Harvey, i paesaggi sonori di Morricone e le melodie sdolcinate di Bob Dylan. Ci sono di sicuro degli artisti, comunque, che più di altri hanno lasciato un segno indelebile dentro me. Per citare alcuni nomi: PJ Harvey, Jimi Hendrix, Beck, Mark Lanegan, David Bowie, Franco Battiato, Elvis Presley, Bob Dylan, Lucio Battisti, Tom Waits, Robert Johnson, Nick Cave, Fabrizio De André, Hank Williams, Siouxsie and the Banshees, Marlena Shaw, Bukka White, Martin Denny, Mina…e sono sicura che altri li sto dimenticando!

Tornando all'attualità, con quali artisti underground (italiani o esteri) senti una vicinanza musicale?

Mi piacciono molto, in generale, coloro che cercano di proporre la loro personale visione della musica, con onestà e senza troppe forzature ed è a questi che mi sento più vicina, perché è il mio stesso approccio a una tradizione musicale a dir poco ampia e che è già stata oggetto di sperimentazione negli anni precedenti. Mi sento vicina a chi re-immagina  e sa farti rivivere quel suo sogno. Uno di questi, in particolare, è un artista italiano, Second H. Sam.

Tornando un attimo al genere, molti artisti emergenti stanno recuperando sonorità anni '60 e '70: pensi che percorrendo strade tradizionali (come può essere il blues o, come si sente in alcuni tuoi brani, la psichedelia) si possa arrivare a dire qualcosa di nuovo ed innovativo?

Credo che per arrivare a qualcosa di veramente nuovo e innovativo  serva  “semplicemente”  una mente molto speciale, attenta e aperta, con la capacità di sfidare e superare i grandi miti, a prescindere da qualsiasi epoca musicale. Diciamo che il blues, ora, sta piano piano venendo riconsiderato, mentre qualche anno fa non se ne sentiva parlare così tanto…non era di moda.

Il fatto di cantare in inglese è una scelta di aderenza al genere o è un mezzo tramite il quale riesci a esprimere meglio le tue sensazioni? E in questo senso il brano Goin' Down rappresenta un'eccezione, oppure è un'indicazione per il tuo percorso futuro?

Canto in inglese perché le canzoni sono naturalmente nate così. Se un giorno mi svegliassi con l’estro di scrivere qualche brano in francese, perché no? Ma c’è anche una ragione di carattere più strettamente pratico dietro all’inglese, ovvero di farsi conoscere anche al di fuori del territorio italiano. Ma non pongo limiti alla mia creatività: Goin’ Down, appunto, anche se apparentemente potrebbe sembrare una canzone in inglese, in verità è cantata in italiano, ed è stata scritta di getto, in dieci minuti, nel gennaio del 2009 in un momento di transizione della mia vita. Ho deciso di metterla nel disco lo stesso perché mi piace molto e adoro cantare quel pezzo, dalle sonorità così oscure e abissali che contrastano con la limpidezza della voce.

Per concludere, parlaci dei tuoi progetti futuri. Hai un'aspirazione particolare, un sogno nel cassetto?

Un progetto per il futuro e già in cantiere è un secondo album ma anche un imminente tour in Sicilia a dicembre. Per me, che sono una sognatrice, poi, nel cassetto ci sono tanti sogni: uno di questi è quello di portare in scena un testo teatrale che ho scritto di recente e per cui sto ideando anche delle musiche di scena…