Low – The Invisible Way (Recensione)

Low – The Invisible Way (Recensione)

2017-11-08T17:15:49+00:0013 Aprile 2013|


Low-The Invisible Way
Il trio di Duluth torna alla semplicita' dei suoi primi lavori con l'aiuto di Jeff Tweedy dei Wilco e del suo "tocco invisibile".

7,5/10


Uscita: 18 marzo 2013
Sub Pop Records
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A prima vista potrebbe sembrare una combinazione poco riuscita: gli alfieri del minimalismo slow-core Low insieme a Jeff Tweedy, che con i suoi Wilco è riuscito a far digerire al grande pubblico anche i suoni più ostici e sperimentali, trasformandoli in qualcosa di accogliente e sostanzialmente innocuo grazie al suo innato talento melodico. Anche fisicamente, i Low e Tweedy sembrano essere due entità agli antipodi: tanto i primi esprimono gelo e rigore, così il secondo ha da tempo acquisito l’aria paciosa di un padre di famiglia dal passato turbolento, ma che ora ha definitivamente messo la testa a posto e piantato i suoi piedi nella tradizione country-folk americana. Eppure il primo risultato di questa unione, con Alan Sparhawk e Mimi Parker accompagnati di nuovo dal bassista Steve Garrington mentre Tweedy produce, sembra essere proprio quello che serviva al gruppo di Duluth per chiarirsi le idee dopo il deludente C’Mon: le undici tracce di The Invisible Way mettono in luce una rinnovata chiarezza di intenti e di suoni, che lascia definitivamente da parte le sperimentazioni (generalmente poco riuscite) di The Great Destroyer e Drums and Guns, e aumenta invece il potenziale “classico” dei loro brani migliori.

Lo si può avvertire subito dal primo brano Plastic Cup: laddove un tempo il trio avrebbe trovato il modo di introdurre una strisciante inquietudine negli spazi vuoti lasciati dalla chitarra acustica e dalle percussioni, qui invece tutto viene illuminato dalla luce radiosa della produzione di Tweedy, che mette in evidenza ogni singolo strumento, senza lasciare zone oscure. E’ un trattamento che si può avvertire anche in molti altri brani, specialmente quelli in cui è la voce cristallina di Mimi Parker ad essere in primo piano: tra questi Holy Ghost, la struggente Four Score e il singolo Just Make It Stop, che costruisce un crescendo travolgente grazie ad un’unica unchained melody, che vi ritroverete presto a canticchiare.  Tweedy sembra avere capito perfettamente che le armonie incrociate dei coniugi Sparhawk-Parker, da sempre vero punto di forza del gruppo, brillano di bellezza pura solo se spogliate da ogni orpello strumentale: così le lascia libere di incrociarsi in Amethyst, oppure crea un’atmosfera quasi sacra per la complessità delle emozioni famigliari evocate dal brano Mother.  Quando poi  il ritmo torna in primo piano (come nella bella Clarence White) il leader dei Wilco non si lascia pregare e aumenta i volumi, senza però mai esagerare e lasciando comunque la piacevole sensazione di ascoltare tre persone impegnate a suonare nella stessa stanza.

Altrove invece il trattamento-Tweedy si fa sentire in maniera più sottile: è il caso di So Blue, sostenuta da un impetuoso pianoforte, che cresce di volume mentre gradualmente si raggiungono livelli progressivi di inquietudine. E’ un espediente che riporta i Low alla bellezza di classici come Secret Name e Things We Lost in the Fire, ma questa volta i contorni restano più definiti, grazie alla mano di Tweedy che rimane salda sui controlli e sa tagliare quando ce n’è bisogno. E’ proprio questa salutare ricerca dell’essenziale a mantenere sotto controllo la durata dei brani, che raramente superano i 4 minuti e si dissolvono con il finire delle strofe cantate, come se non si volesse caricare eccessivamente queste 11 “simple songs”. Meno riusciti infatti risultano gli episodi che dovrebbero risultare più epici (On My Own, Waiting), come se mai come in questo caso la band si dovesse limitare a quello che sa fare meglio: ovvero creare grandi emozioni a partire da pochi elementi, senza strafare.

Siamo ben lontani quindi dalla temuta “svolta country” per il gruppo di Duluth: invece di imporre il suono che ha fatto la sua fortuna, Tweedy lavora in modo quasi invisibile (sarà a questo che si riferisce il titolo del disco?) dimostrando di essere il produttore giusto al momento giusto, in grado soprattutto di ridare una direzione ad una band che negli ultimi tempi sembrava destinata solo a scimmiottare il suo illustre passato.  Nei suoi momenti migliore, The Invisible Way ci regala alcuni dei momenti più toccanti della loro discografia, in quelli peggiori è semplicemente noioso, ma ben lontano dall’imbarazzo di brani come Step o Everybody’s Song. La sensazione comunque è che questi passi falsi siano solo retaggi di un passato recente non dei più brillanti, nient’altro che semplici residui che il trio potrebbe scrollarsi di dosso con la prossima prova, ora che sembra aver ritrovato l’ispirazione di un tempo.