Radiohead – A Moon Shaped Pool (Recensione)

Radiohead – A Moon Shaped Pool (Recensione)

2017-11-08T17:15:43+00:0020 Ottobre 2016|


Radiohead A Moon Shaped Pool
I cinque di Oxford tornano con un album discontinuo, che alterna picchi di emotivita' assoluta a suoni e temi del loro repertorio, sfiorando pericolosamente il gia' sentito.

7,5/10


Uscita: 8 maggio 2016
XL Recordings
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Ogni anno con l’avvicinarsi del Natale tutti gli animi si riaccendono e si riempiono di aspettative e ansie, come se questa volta dovesse essere l’ultima. Ci comportiamo come se fosse una festività che non si tiene ogni anno, ma molto più raramente: non a caso è il periodo in cui ricordare è d’obbligo e non fa poi cosi male. Lo stesso succede immancabilmente ogni volta che i Radiohead, che da almeno due decenni guidano in massa i loro fan, tornano dopo una lunga pausa, che ha visto i membri della band impegnati in altri progetti: emozioni, ansie e paure che furono riemergono. La conseguenza è che questo A Moon Shaped Pool è un album che non può passare inosservato: da una parte i fan (chi più storico chi meno) attendevano con ansia la sua uscita, dall’altra parte la critica, le nuove generazioni e il mondo mainstream un po’ per curiosità, un po’ per comodità osservano il tutto, più per volersi mostrare aggiornati che per reale interesse.

Come al solito, l’album non delude: per certi versi può essere visto come una perfetta interpretazione di quello che può esprimere la musica dei Radiohead oggi. Sarà forse che Thom Yorke ha attraversato negli ultimi tempi una sorta di crisi di mezza età, dovuta alla separazione dopo 23 anni dalla moglie Rachel Owen, e sta rivivendo una seconda giovinezza: ciò che è sicuro è che l’ultimo lavoro dei Radiohead risulta molto attuale.

Prima di dedicarci alla musica vale la pena spendere due parole per la pubblicazione dell’album, che è avvenuta completamente a sorpresa, anticipata solo da dei trailer del video del primo singolo estratto Burn the Witch e dalla completa scomparsa da tutte le pagine social della band di foto o notizie. I Radiohead si sono nascosti nell’immensità del digitale per poi uscirne con il botto: una strategia che ancora di più dimostra l’attualità della band, che ha capito perfettamente (forse già quando sedici anni fa intitolarono un pezzo How to Disappear Completely) che nell'epoca dell'esposizione totale, l'unico modo per farsi notare è non-comunicare, non-apparire, non-esserci insomma. Anche per l'uscita di un album non servono più anticipazioni o date da attendere, ma viene usata esclusivamente la forza motrice di internet e di una distribuzione capillare del disco.

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Ilustrazioni di Veronica Malatesta

Apre le danze Burn the Witch, nella quale un complesso d'archi lancia il ritmo accompagnato da un synth bass che traspira malinconia, nonostante l’allegra melodia della controparte. Un pezzo sicuramente meritevole dove Thom Yorke usa al meglio le sue peculiari capacità vocali, danzando e giocando con le vocali sopra questa malinconica marcia incessante, che non varia per tutta la durata del pezzo. Un brano assai introverso, difficile pensare un altro ascolto se non quello in cuffia, come anche la successiva Daydreaming, dove, mentre un dolce piano ci lascia sognare, diventa sempre più palpabile lo stato di desolazione in cui il cantante si trova. Nonostante l’intero disco sia immerso nella foschia dell'angoscia, non manca mai quel barlume di speranza che rende l’ascolto più profondo, ci induce a riflettere su noi stessi, su come da un momento all’altro tutto possa crollarci addosso e l’unica cosa da fare sia guardare comunque avanti, verso il futuro.

And in your life, there comes the darkness/There's a spacecraft blocking out the sky”, questi sono i versi di apertura di Decks Dark che riassumono al meglio tutto quello che io a malapena sono riuscito a spiegare in un intero paragrafo. Questa traccia è senz'altro è una delle migliori a livello tecnico, sperimentale al punto giusto, psichedelica quanto si vuole, tra chitarre e impercettibili riff ovunque a contornare il pezzo. L’esempio migliore di come in quest’album tutto sia esattamente al suo posto (Everything in its Right Place, no?) con una sorta di operazione chirurgica, nulla è lasciato al caso: i Radiohead diffondono nel disco tutta la loro capacità produttiva, che ormai da decenni hanno accumulato, rischiando però di peccare a tratti per un eccesso di atmosfere sofisticate e rarefatte, senza però lasciar intendere il perché. Man mano che si procede con l'ascolto, si ha sempre più l'impressione di trovarsi di fronte a un album che nel complesso risulta perfetto, ma manca di quel pizzico in più che lo avrebbe reso un capolavoro.

Si prosegue con Full StopThom Yorke evidentemente non ha scordato ciò che ha appreso dal suo recente lavoro solista Tomorrow’s Modern Boxes: anche l’elettronica più avant garde scende in campo da protagonista in un pezzo dove synth e rumori si fondono cristallinamente. Una bellezza che però rimane lì, rarefatta e irraggiungibile fino a quando, dopo 3 minuti, attacca la batteria e la chitarra ritmica in un ritmo incalzante che non lascia a scampo, e la testa di chi ascolta inizia ad andare su e giù. E’ sicuramente uno dei pezzi più viscerali e shoegaze del disco, che si rifà all’ormai affermato panorama neo-psichedelico della musica indie.

Non mancano poi alcuni episodi più "semplici" rispetto a quello che ci siamo abituati ad aspettare da un simile quintetto di sperimentatori: Desert Island Disk e The Numbers sono due pezzi praticamente acustici, in cui viene quasi completamente lasciata da parte l'elettronica per affidarsi al suono confortante della chitarra acustica. Identikit invece riprende uno dei brani inediti più suonati durante l'ultimo tour del 2012, lo spoglia del sound "rock" della versione live e lo riassembla in una veste più riflessiva, con solo le linee taglienti di chitarra a ricordarci dei tempi ormai lontani quando i Radiohead erano "solo" un'ottima rock band. In chiusura, la sorpresa più grande: True Love Waits, presente nelle scalette live della band almeno a partire dal 1995, trova finalmente una casa su disco, in una versione esausta e bellissima, nel quale il ritornello "Just don't leave" da grido disperato diventa una preghiera da intonare con un filo di voce, da parte di un uomo che vede tutte le certezze su cui ha costruito una vita intera vacillargli davanti agli occhi. Una versione definitiva, un dolore adulto e perciò ancora più definitivo e insopportabile.

Insomma al netto degli inevitabili alti e bassi, A Moon Shaped Pool è un album che riesce a racchiudere tutto il meglio della musica di oggi e dei Radiohead, che però a volte sembrano peccare di maniera. Se strutturalmente è impeccabile, alcuni episodi mancano un po’ di sincerità, e si ha la sensazione di una band che invece di cercare nuovi rischi si è affidata al meglio di un repertorio inattaccabile, vestendolo con i suoni che ci facciano dire "E' un altro album dei Radiohead". Insomma, è come leggere un manuale di musica: si rimane affascinati da ciò che si apprende, ma delusi dalla schematicità e a volte staticità degli insegnamenti che ci vengono trasmessi. E questo, da chi ha votato gran parte della sua carriera alla missione di stare sempre un passo avanti rispetto agli altri, è un campanello d'allarme che non ci aspettavamo.