Intervista: Robin Proper-Sheppard (Sophia)

Intervista: Robin Proper-Sheppard (Sophia)

2019-06-05T14:10:57+00:0014 Giugno 2016|

RobinProperSheppard

In occasione dell'uscita del nuovo album dei Sophia As We Make Our Way (Unknown Harbours), abbiamo chiacchierato via Skype dalla sua casa di Bruxelles con Robin Proper-Sheppard, indimenticato leader dei God Machine e da ormai vent'anni alla guida della sua nuova creatura.
E' stata l'occasione per parlare del disco, delle sue ispirazioni e di cosa pensa delle elezioni presidenziali americane (e di Donald Trump), ma anche della sua improvvisa esplusione dall'Europa a fine 2014, a causa di problemi col visto.


Ciao Robin e bentrovato. Partiamo parlando del nuovo album, che mi ha fatto venire in mente una serie di domande. Prima di tutto: puoi spiegare quali sono le fonti principali di ispirazione del disco?

Penso che gran parte del disco sia basato su delle riflessioni: riflessioni sulla mia vita, riflessioni sul mio passato. Sicuramente non è un disco da cuori spezzati, un heartbreak record, per me è molto diverso da altri dischi precedenti dei Sophia in questo senso. Non è un album basato su una relazione in particolare, e penso che questo sia una diretta conseguenza dell’esperienza che ho avuto con il disco precedente There Are No Goodbyes, l’ultimo album dei Sophia. Quel disco era interamente dedicato a un mio grande amore, è stato un disco molto scuro e doloroso per me da realizzare e con cui convivere. Penso che negli ultimi anni non ho lasciato che una storia di quel genere entrasse nella mia vita, e in un modo quasi buddista mi ha aiutato ad avere più chiarezza sulla vita. Penso che questo disco sia più una riflessione, e forse c’è una punta di rimpianto, anzi sicuramente c’è del rimpianto perché in questo periodo non mi sono focalizzato così tanto su me stesso e sui miei sentimenti in certe situazioni, ma sull’impatto che ho sulla gente intorno a me e sulle relazioni che mi circondano.

E’ un disco più sereno secondo te, rispetto all’ultimo?

Dipende da come definisci “sereno”. Da un punto di vista emozionale sicuramente non c’è più così tanto dramma e tormento in questo disco, perché non sarei riuscito in nessun modo a realizzare un disco come There Are No Goodbyes. E’ stato troppo intenso e troppo difficile, e la mia vita era troppo rovinata ed ero troppo infelice e anche solo come semplice essere umano, non voglio mai più fare una cosa del genere. La persona di cui parla quel disco si è rivelata essere completamente diversa da quella che pensavo fosse, spero di non dover affrontare mai più nella mia vita una situazione del genere. In questo senso, questo album è sicuramente più sereno rispetto a There Are No Goodbyes, sicuramente. Allo stesso tempo però i suoni, le texture e le dinamiche penso siano assolutamente non serene, molti brani sono molto più duri di quanto io abbia mai fatto con i Sophia in precedenza.

Sì l’ho notato anch’io. Infatti all’ascolto sembra quasi di essere di fronte a un disco diviso a metà: da una parte ci sono le tue tipiche ballate, che stanno diventando sempre più eteree col passare del tempo; dall’altro lato ci sono suoni più elettronici e rock, come ad esempio nel singolo Resisting. Qual è stata l’ispirazione dietro a questo brano? Ha un suono diverso rispetto al resto dell’album…

E’ fantastico che tu l’abbia trovato diviso in due metà come dici, perché in realtà io non ci avevo pensato proprio. Uno dei musicisti che lavora con me (non ha suonato nel disco ma viene con me in tour) quando ha ascoltato il disco per la prima volta ha avuto lo stesso pensiero: “Questo disco deve essere fantastico da ascoltare in vinile, perché hai il primo lato che è una versione aggiornata e con uno stile differente dei vecchi Sophia, e poi sul secondo lato hai questa specie di sfida all’idea di quello che sono i Sophia”.

Sì, il secondo lato è sicuramente più sperimentale…

Non l’ho fatto apposta però. Sai, proprio oggi stavo cercando di aiutare a finire la mia biografia in inglese, e ho dichiarato che non sono così pragmatico, non sono il tipo che riesce a decidere “ok è così che sarà il mio disco”. Con questo disco ho letteralmente buttato via canzoni già registrate quando eravamo agli ultimi giorni di missaggio e le ho sostituite con nuove canzoni, in modo da costruire qualcosa che dicesse quello che volevo dire, sia dal punto musicale, sia da quello dei testi. Per me hanno tutti il suono dei Sophia, ma ad ad esempio un brano come You Say It’s Alright è ovviamente piuttosto diverso dai Sophia, allo stesso tempo.

Hai accennato a una tua biografia: c’è un libro in arrivo?

No, no è solo una biografia per la stampa. Ma è divertente pensarci: la mia storia è così lunga, ho lasciato San Diego quando avevo 19 anni e ho tantissime storie da raccontare. Non potrei mai scrivere un libro perché non sono così bravo come scrittore, ma qualche volta ho pensato che potrebbe essere divertente sedersi e scrivere alcuni di questi aneddoti.

Quindi non lo escludi per il futuro, se ho ben capito…

No, non l’escludo. Trovo molto difficile scrivere insieme a qualcun altro, perché le mie canzoni sono sempre così personali, ma penso che se dovessi scrivere un libro mi dovrei sicuramente far dare una mano da qualcuno per scriverlo. Il problema è che parlo troppo, quindi non riesco nemmeno a immaginarmi come verrebbe fuori un libro! [ride]

Avresti bisogno di un buon editor!

[ride] Sì esattamente, un bravissimo editor!

Tornando al nuovo album: sembra esserci un tema nautico, perché hai scelto questo titolo col riferimento ai “porti sconosciuti” (Unknown Harbours) e questa copertina con l’ancora?

Stavo lavorando a un pezzo strumentale, Unknown Harbours, il brano di pianoforte che apre il disco. Era l’ultimo dell’anno, penso fossero le 2 di notte e questo ti fa capire quanto poco ho festeggiato! L’avevo praticamente finito e sapevo che quella canzone sarebbe stata chiamata Unknown Harbours, quando per puro caso una mia amica su Facebook, una persona che conosco da 4 o 5 anni, il cui marito realizza opere d’arte con le luci, ha postato sul mio feed una foto di una sua opera, quest'ancora. Erano le 3 del mattino del primo dell’anno, avevo appena finito la canzone Unknown Harbours e quest'ancora mi è apparsa su Facebook, ho pensavo che non esistono casualità nell’universo e quindi ho messo insieme le varie cose. Poi c’è sicuramente un tema nautico: sai, la figura del vagabondo e cose del genere, mi sembrava adeguato.

Quali sono i “porti sconosciuti” che senti di dover ancora esplorare con la tua musica, ora che sono passati vent'anni dal primo disco dei Sophia?

Non in senso musicale, ma il titolo di quella canzone, specialmente in relazione con il resto del disco, posso applicarlo alla vita di tanti miei amici che hanno trenta, quaranta, cinquant’anni e sentono di essere trasportati dalla loro vita, nessuno sa esattamente dove stanno andando. Cose sulle quali hai contato per tutta la tua vita possono cambiare da un momento all’altro e non sai dove potresti andare a finire domani, o la prossima settimana, o il prossimo anno. E’ da lì che viene il titolo As We Make Our Way (Unknown Harbours). Stiamo cercando di farci largo nella vita, ma c’è ancora così tanta incertezza e cose che non conosciamo.

Questo è il primo album dei Sophia in 7 anni: come ti sei tenuto impegnato in questo periodo?

Con la vita. [ride] Non ci crederai, ma in questo periodo ho imparato ad andare in barca…

Ecco, questa è un’ispirazione allora!

Sì ma sono sempre, sempre, sempre stato ispirato dal mare. Ha molto influenzato la mia vita: sono cresciuto vicino all’oceano a San Diego ed è paradossale che sia finito in Europa, così lontano dal mare che conoscevo, con l’oceano, le onde e quel tipo di magnetismo che ha sempre fatto parte della mia vita. Ho imparato ad andare in barca, ho fatto un tour acustico nel 2010 e ho invitato tutti i fan che sono venuti agli show a mandarmi un’e-mail con le loro richieste, con le canzoni che avrebbero voluto ascoltare. Così poi ho fatto un disco interamente acustico con le canzoni più richieste dai fan, non è stato un disco pubblicato ufficialmente, solo per la mia mailing list. Ho lavorato con diverse band e musicisti differenti. Sono stato espulso dall’Europa a gennaio dell’anno scorso, ho passato un anno a Los Angeles…ho avuto sette anni piuttosto pazzeschi!

Ma ora senti di essere arrivato a un porto sicuro?

Beh se fosse così non avrei intitolato il disco “Unknown Harbours”, questo è sicuro! La cosa paradossale del mio stile di vita è che mi sento a mio agio ovunque io vada, ma la verità è che non ho ancora trovato una casa, nonostante abbia vissuto a Londra per quasi 25 anni, e poi a Bruxelles negli ultimi anni a periodi alterni. Sono tornato a Los Angeles per quasi un anno e non l’ho più sentita come casa mia. Mi sento al sicuro, ma non ho ancora trovato il mio porto sicuro.

Dimmi di più sulla tua espulsione dall’Europa e sul tuo periodo negli Stati Uniti: cosa è successo?

E’ una storia piuttosto lunga: ho avuto dei problemi con l’immigrazione un paio d’anni fa, in realtà erano falsi problemi. Sono stato contattato dalle autorità e mi hanno detto che il mio visto era scaduto, ma non era vero. In realtà mi avevano inserito erroneamente nel sistema come qualcuno che poteva avere il visto scaduto, anche se non era così: tuttavia una volta schedato come persona con il visto scaduto, la vita è diventata piuttosto difficile per me, soprattutto per quanto riguardava spostarsi avanti e indietro in Europa. Così, dopo averne parlato con la madre di mia figlia, ho deciso di fare domanda per un permesso di soggiorno per artisti in Belgio, perché così mia figlia, che ai tempi aveva 14 anni, avrebbe potuto prendere l’Eurostar e venire a Bruxelles in due ore in modo da passare dei weekend insieme. Circa due anni fa, subito dopo Natale, mi hanno detto che non mi avrebbero concesso il permesso di soggiorno e quindi avrei dovuto andarmene nel giro di sette giorni. Prima di rendermene conto ho impacchettato tutta la mia roba e sono salito su un aereo per tornare in California.

E quanto tempo sei rimasto lì prima di tornare in Europa?

Circa 10 mesi. Volevo mettere a posto tutte le carte, in modo che non ci fossero più problemi una volta tornato. Fortunatamente, i problemi che avevano trovato non erano veri problemi: una volta coinvolto il mio avvocato e le autorità tutto è stato chiarito. Ma mentre ero in California volevo essere sicuro di non avere più problemi in Europa, così ho preparato un sacco di scartoffie. Ancora adesso non sono autorizzato a stare in Europa, ho un normale permesso Schengen come qualsiasi altro americano, ma almeno non devo più stare attento quando attraverso la frontiera e cose del genere. Ma te lo assicuro, non è una vita semplice!

Lo immagino. Avere a che fare con la burocrazia europea non è mai piacevole.

E’ terribile, e ancora peggio è la burocrazia europea con sede negli Stati Uniti. Andare in queste ambasciate è una cosa impossibile, è come se non fossero lì per facilitarti la vita, per fornirti un servizio, ma per respingerti più e più volte. Anche se è stato bello tornare in California, è come dico in una canzone del disco: hai questo sole bellissimo eppure Los Angeles è così complessa e così orribile, ci sono dei contrasti enormi. C’è chi ha un sacco di soldi, fa yoga cinque giorni a settimana e guida auto decappottabili, tutta gente che lavora nell’industria dell’intrattenimento o nella finanza, e poi c’è un posto come Skid Row [un sobborgo di Los Angeles, ndr], dove la maggioranza della gente ha problemi mentali, sono estremamente poveri e non hanno alcun tipo di supporto dal governo. E’ una cosa pazzesca, l’America è pazza. Basta guardare Donald Trump, ti basta quello per mostrarti quanto è pazza l’America.

Come vedi la situazione per le elezioni presidenziali, visto che ne stai parlando?

Sai una cosa? Mi spezza il cuore. Mi sento male quando guardo queste cose al telegiornale. Io di solito seguo solo il Guardian e i media inglesi e europei e mi si spezza il cuore, mi fa male anche solo pensarci.

Certamente non ti fa venire voglia di tornare, questa situazione?

Assolutamente no. Ti dico una cosa: quest’anno sarà la prima volta da tanti anni che voterò dall’estero. Non riesco minimamente a immaginare Donald Trump che diventa presidente, ma ci tengo a dare il mio piccolo contributo per cercare di prevenirlo. Il mondo cambierà se Donald Trump diventerà presidente.

Pensi che potresti mai scrivere una canzone politica un giorno?

Forse non apertamente politica, perché non ho il linguaggio adatto a parlare di quegli argomenti in modo convincente. Non sono Billy Bragg, non mi sento a mio agio a parlare in quel modo. Ma allo stesso tempo, ad esempio una canzone come St. Tropez / The Hustle è una canzone politica per me. E’ una riflessione sul periodo in cui ero tornato a Los Angeles, e sul vedere come questa idea dei soldi influenza tutto negli Stati Uniti: sono così importanti per così tanta gente, e non nel senso che ne hai bisogno per sopravvivere, non nel senso europeo che è quello che se ne hai abbastanza per goderti la vita con i tuoi amici e la tua famiglia generalmente sei felice, senti di avere una fantastica qualità della vita. In America invece la gente è così focalizzata sul consumismo: un risultato è ottenere un aumento al lavoro, quello è il loro grande risultato, non il fatto che trovano soddisfazione in quello che fanno. Un sacco di persone che ho incontrato lì hanno questi lavori in cui fanno così tanti soldi e nonostante questo odiano il loro lavoro. Odiano il loro lavoro, odiano la loro vita. E’ molto deprimente. Non ero tornato in California e negli Stati Uniti per 15 anni e ho trovato un sacco di  cose cambiate, e anch’io sono cambiato, mi ero quasi dimenticato quanto diamo per scontata la vita più semplice che abbiamo in Europa. E’ complicato, la vita è complicata, ma i valori e il modo in cui guardiamo alla vita e alle cose che ci circondano è molto più semplice rispetto agli Stati Uniti.

Ok, lasciamo da parte la politica internazionale e torniamo alla musica. Da tanti anni porti avanti l’etichetta Flower Shop Recordings: la tecnologia sta aiutando una piccola etichetta come la tua a farvi ascoltare oppure sta diventando sempre più difficile far sentire la vostra voce in mezzo a tutta la musica che si trova online?

La Flower Shop Recordings è iniziata quando stavo ancora nei God Machine ed è partita con l’idea di pubblicare solo 7 pollici. Potevo andare a vedere una band il venerdì, farli entrare in studio durante il weekend e nel giro di una settimana potevamo avere un 7 pollici stampato a mano, con la possibilità per tutti di divertirsi in un progetto che si fa insieme. Ai tempi vedevo i 7 pollici come un modo per aiutare le band a iniziare, sperando che poi potessero trovare un’altra etichetta più grande, andare in tour, insomma avviare una carriera nel mondo della musica. Al giorno d’oggi invece stampi un 7 pollici perché è una cosa figa da fare, ma sai che le possibilità che questa band riesca a sopravvivere con la musica sono minime. Ed è una cosa che mi fa davvero male, e che rende difficile far uscire dei dischi oggi perché amo così tanto la musica e le band con cui lavoro, vorrei che tutti fossero in grado di mollare i loro lavori, salire su un pulmino e realizzare i loro sogni. Ma è così difficile oggi, è molto, molto difficile. Certo, come artista puoi caricare le canzoni su iTunes e Spotify in poche ore, ma ci sono milioni di artisti e band che lo fanno e milioni di canzoni. E’ difficile per me mettermi una mano sul cuore e dire a una band “farò uscire il vostro disco perché penso che sarete in grado di andare lontano”.

La tua musica e la musica della Flower Shop è su Spotify?

I primi dischi dei Sophia non ci sono. Probabilmente neanche i primi dischi che ho registrato con alcune band: nonostante io abbia pagato le registrazioni, abbia prodotto i dischi e abbia pagato per la stampa delle copie, ho sempre lasciato che gli autori potessero mantenere tutti i diritti. Se vogliono metterli su Spotify sono liberi di farlo, ma, a meno che mi chiedano loro specificamente di metterli su Spotify, mi sentirei un po’ strano a caricarli io stesso. Non ho mai pensato alla mia etichetta in quel modo. Abbiamo fatto dei grandi dischi e ci siamo divertiti, ma col passare del tempo sta ai musicisti decidere se vogliono la loro musica su Spotify oppure no.

Quindi pensi che sia semplicemente un altro strumento a disposizione degli artisti per farsi ascoltare?

Sì, assolutamente. Al momento non ci sono i primi dischi dei Sophia, c’erano fino a qualche tempo fa ma poi li ho tolti circa un anno fa quando ho iniziato a definire gli accordi per il nuovo album. Sai, distribuzioni diverse e cose del genere…volevo che tutto fosse molto chiaro, prima di imbarcarmi in questo nuovo contratto. People Are Like Seasons c’è su Spotify, Technology Won’t Save Us e There Are No Goodbyes anche; tutti gli ultimi album ci sono perché ho accordi differenti per quei dischi e quindi sono contento che siano ancora disponibili. Rimetterò presto anche i dischi più vecchi: da quando ho fatto uscire Resisting ho avuto 10 o 15 email da gente che mi chiedeva di mettere i vecchi dischi su Spotify, perché è così che la gente ascolta la musica oggi. Io uso Spotify, non mi posso certo lamentare.

Ma molti artisti si lamentano del sistema delle royalties…

Sì lo so, ma il punto è che, dal momento che gestisco la Flower Shop, anche per i dischi dei Sophia continuo a negoziare tutta una serie di accordi con altre etichette per la distribuzione. E Spotify è oggi il terzo canale che produce maggiori introiti per queste piccole etichette, si sta costruendo la sua strada. Ci sono un po’ di soldi anche lì, non è come ai vecchi tempi, ma personalmente penso che Spotify sia fantastico per le band che vanno in tour e finiscono in una città, piacciono a qualcuno del pubblico che poi può andare a casa, digitare il loro nome e ascoltare la loro musica. Ha una buona qualità ed è fantastico per la band.

Già, e poi specialmente se sei una piccola etichetta cerchi di prendere tutto quello che si può ottenere.

Assolutamente.

Ultima domanda: quali sono i tuoi piani per l’immediato futuro e cosa si possono aspettare i fan dal tuo prossimo tour? Suonerai principalmente canzoni nuove o vecchie? E quanti musicisti saranno sul palco con te?

Ho una nuova band eccezionale. C’è sempre lo stesso batterista, quello che ha suonato fin dall’inizio con i Sophia. Una delle cose che non sapevo del Belgio prima di tornarci, è che ci sono alcuni fantastici conservatori qui, e ho avuto modo di lavorare con alcuni di questi musicisti, producendo le loro band o incontrandoli come conoscenze di altre band. Così adesso ho tre musicisti belgi nella mia band: il bassista, il chitarrista e il chitarrista/tastierista/rumorista. Gli ultimi show che abbiamo suonato in Olanda l’estate scorsa, per scaldarci mentre stavamo finendo l’album, sono stati semplicemente incredibili: eravamo in quattro senza il terzo chitarrista coi synth, io stesso non suonavo la chitarra acustica, solo la chitarra elettrica. Le parti più d’atmosfera e tranquille erano ancora più tranquille e d’atmosfera, e le parti rumorose erano così rumorose che era quasi incredibile. Abbiamo suonato benissimo non solo i brani del nuovo album, abbiamo ripescato canzoni vecchie come ad esempio quelle di Fixed Water e suonavano fantastiche. Sono piuttosto emozionato.

Un’altra domanda: dal momento che quest’anno festeggiamo i vent’anni dal primo disco dei Sophia, come vedi questo viaggio, come si sono evoluti questi vent’anni per te? Voglio dire, sei partito da una piccola etichetta indipendente con dischi autoprodotti per arrivare a People Are Like Seasons, quando la tua musica ha avuto un maggiore successo commerciale grazie a una distribuzione più grande, e ora sei un po’ in una fase intermedia: come potresti riassumere il tuo percorso in questi vent’anni?

E’ piuttosto strano. Prima avevo i God Machine, ed eravamo sotto contratto con una major, con la Fiction e la Polygram. Con i God Machine avevamo una fanbase molto affezionata, quei dischi hanno avuto un buon successo a modo loro. Poi Jimmy [Fernandez, bassista dei God Machine, ndr] è morto e io ho smesso di fare musica per un bel pezzo. Poi con i musicisti delle band che a quei tempi registravano per la Flower Shop abbiamo fatto Fixed Water, e la cosa ironica è che all’inizio pensavo di stamparne solo 2000 copie, perché la musica era così diversa dai God Machine e non pensavo che nessuno volesse ascoltarla. Ma alla fine ho venduto più copie di Fixed Water con la Flower Shop che dei due dischi dei God Machine usciti per la Polygram messi insieme. Anche se eravamo su una piccola etichetta, i Sophia sono diventati molto famosi molto velocemente. Poi quando sono arrivato a People Are Like Seasons pensavo che l’avrei fatto nello stesso modo, ma poi la City Slang ha sentito l’album e mi hanno detto ‘Ascolta, abbiamo appena fatto questo grosso accordo con la EMI, vogliamo far uscire il tuo disco in tutto il mondo’. E io ho pensato ‘ok, la City Slang è un’etichetta incredibile, hanno i Calexico, i Lambchop’ e insomma era veramente un’etichetta che apprezzavo. E così in posti come Austria, Germania e Svizzera il disco è andato veramente bene, ma in posti come Italia, Francia e Scandinavia sono andato peggio quando ero con la EMI che quando stavo con la Flower Shop. Dopo People are Like Seasons mi sono ripreso i diritti del disco con la Flower Shop per tutti i Paesi, con l’eccezione della Germania. Quindi anche se c’è stato più hype per quel disco, le vendite si sono mantenute nello stesso range. Quando è uscito Technology Won’t Save Us, che è entrato in classifica in Italia, la mia etichetta tedesca mi ha chiesto “ma come hai fatto?” [ride]

Con una fanbase molto affezionata!

Per me è sempre stato un processo completamente naturale, ho sempre fatto quello che volevo fare e sono contento di questo. Ora sono molto curioso di vedere come andrà questo disco, sono sempre molto sorpreso quando mi dicono cose tipo “Oh, Radio 2 vuole inserirti nella playlist del programma Rock ‘n’ Roll Circus” con una canzone come Resisting, perché secondo me non si tratta di un pezzo radiofonico! E succede anche in Germania, viene passato dalla radio durante il giorno in Benelux, in Inghilterra. Quindi non lo so, sono più curioso ora su dove andrò a finire che in qualsiasi altro momento della mia carriera. Quindi vediamo cosa succederà. Vediamo in quali “porti sconosciuti” andremo a finire.


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Sopra: foto di Philip Lethen