Mudhoney – Vanishing Point (Recensione)

Mudhoney – Vanishing Point (Recensione)

2017-11-08T17:15:49+00:0019 Aprile 2013|


Mudhoney-Vanishing-Point
I veterani di Seattle se ne infischiano delle mode e continuano a insistere con il loro garage-grunge: niente di nuovo, ma apprezziamo la loro coerenza.

7/10


Uscita: 2 aprile 2013
Sub Pop Records
Compralo su Amazon: Audio CD | Vinile

 

"Integralisti" non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente, insieme a "resistenza". Vanishing Point è il nono album in studio dei Mudhoney e mette insieme quanto di buono la band ha saputo costruire in una carriera più che ventennale di militanza nell’underground grunge; dico underground perché nonostante negli anni '90 abbiano avuto i loro contatti col mondo delle major e delle riviste patinate, non sono mai arrivati al successo di altri illustri colleghi della scena di Seattle, mantenendo però la reputazione di una band che mette l’anima in ogni suo LP. Anzi, a vedere come si sono risolte (in modo talvolta inglorioso) le epopee di gruppi come Alice in Chains, Pearl Jam, Soundgarden e simili, si può tranquillamente affermare che i Mudhoney siano l’unico gruppo della scena ad essere rimasto ancorato alle sue radici.

L’ultima fatica di Mark Arm e compagni appare quasi come un tributo ai loro fan che come adepti sono rimasti sempre fedeli alla band. L’album è ben strutturato, c’è il giusto insieme di acidità punk-hardcore ed irriverenza, espresso al meglio in brani come il singolo I Like It Small e Chardonnay. Il valore aggiunto è quello di trovare i vecchi Mudhoney ancora intatti, cosa che dona all’LP un alone fuori dal tempo: in un mondo musicale che si misura con intervalli di attenzione sempre più brevi, non è da tutti tornare con un lavoro che sembra uscire dal passato, ma nonostante ciò riesce a rubare la scena senza trovate commerciali né snaturamento della sua indole. Non è un caso che a dare il sigillo di approvazione a Vanishing Point ci sia ancora una volta l'etichetta grunge per antonomasia, la Sub Pop di Jonathan Poneman, da cui tutto è partito alla fine degli anni '80. I ritmi serrati dalla tracklist sono scanditi da pezzi come I Don’t Remember You e In This Rubber Tomb, mentre le atmosfere si fanno più sincopate in What To Do With the Neutral e Sing This Song of Joy.

Ad aprire il disco troviamo Slipping Away, guidata da un'intro di basso e batteria che poi lascia campo ad una chitarra distorta e a tutta l’immediatezza che la band da sempre ha saputo portare nelle sue canzoni. Come una cascata poi arriva I Like It Small, primo singolo dove la scena è tutta per lo humor sardonico di Mark Arm, accompagnato da riff ossessivi di chitarra e da una sezione ritmica fitta e martellante. Non si fa in tempo a tirare il fiato che si è già proiettati in What To Do With the Neutral, momento più riflessivo che rallenta il ritmo ma aggiunge improvvisi picchi chitarristici ad evidenziare un testo tutto da approfondire, con alcune frasi-manifesto alla Nevermind The Bollocks. Chardonnay invece torna a spingere sull’acceleratore, in un minuto e trentanove secondi di puro speed-punk. La parte centrale del disco è quella che per molti aspetti propone gli spunti più interessanti: The Final Course e In This Rubber Tomb sembrano incarnare la maturità artistica che la band ha ormai raggiunto dopo tutti questi anni, con un uso misurato di feedback e noise e testi che denunciano la vita comoda scelta da  molti loro coetanei. Ma è solo un'illusione: l’album prosegue con I Don’t Remember You, sberleffo nei confronti di chi vive in modo parassitario alle spalle degli altri, nella quale ritornano in evidenza i ritmi serrati e il cantato ruvido e diretto. Purtroppo arrivati a questo punto sembra quasi che il disco si appiattisca su questo trend, confermato anche da The Only Son of the Widow of Nain. La fine del disco è affidata a Sing This Song of Joy e Douchebags on Parade, fin troppo sostenute come brani di chiusura, tanto che sembrano quasi lasciare tutto in sospeso; forse sarebbe stato meglio lasciare alla fine le tracce più lente e meditative che appaiono in altre parti del disco.

Vanishing Point ha il merito di prolungare la traiettoria tracciata dal suo predecessore The Lucky Ones, riprendendo lo stesso stile e la stessa verve degli anni d’oro della band di Seattle. Un passo da gigante, per intendersi, rispetto a Under A Billion Suns, nel quale la band sembrava aver smarrito la via, al punto da farci interrogare se avesse ancora un senso un nuovo album dei Mudhoney. L’ultimo lavoro della cricca di Mark Arm non sarà il loro disco migliore, ed in fondo l’anima sgraziata e pionieristica di Superfuzz Bigmuff è difficile da ripetere, però una cosa è certa: i quattro invecchiano più che bene e anche in un’era che privilegia le apparenze la loro proposta rimane autentica. Long live Mudhoney!