Sleater-Kinney – No Cities to Love (Recensione)

Sleater-Kinney – No Cities to Love (Recensione)

2017-11-08T17:15:45+00:0030 Gennaio 2015|


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A dieci anni dal capolavoro The Woods, il trio di Olympia lascia da parte le sperimentazioni e realizza un intenso e formidabile album power-pop.

8/10


Uscita: 19 gennaio 2015
Sub Pop Records
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Poche band nella storia della musica rock sono sembrate necessarie come le Sleater-Kinney. Agli esordi, vent'anni fa esatti, il trio di Olympia sembrava solo l'ennesima ripetizione dei cliché riot grrrl che Bikini Kill e Bratmobile avevano saputo affermare con così tanta forza all'inizio degli anni '90, ma già nei solchi di quell'album spoglio e self-titled c'era un istinto melodico e una convinzione assoluta che mancava a tante band contemporanee. L'incredibile evoluzione delle tre ragazze nei cinque album successivi le ha trasformate d'ufficio nelle ambasciatrici del movimento da cui erano partite, il gruppo più famoso in grado di continuare ad inserire tematiche legate al femminismo radicale nei loro testi, riuscendo comunque a suonare davanti a platee sempre più grandi.

Il tour insieme ai Pearl Jam del 2003, quando suonarono negli stadi americani senza alcun complesso di inferiorità nei confronti degli headliner, segnò probabilmente un punto di svolta: era necessario cambiare per rimanere sé stesse, e allora il successivo The Woods fu allo stesso tempo un'esaltante esperimento e un rinnegare la formula stabilita con così tanto successo sugli LP precedenti. Ne venne fuori un capolavoro vero, un disco estremo sotto tutti i punti di vista (estreme le emozioni in gioco, la produzione rumorosissima di Dave Fridmann, i rapporti tra le tre ormai sul punto di deteriorarsi), che a distanza di dieci anni continua a sembrare il disco perfetto per mettere la parola fine sulla carriera di un gruppo così intenso e anticonvenzionale.

Chi cercherà tracce di quell'irripetibile intensità sonora in questo nuovo album, No Cities to Love, rimarrà inevitabilmente deluso. Le Sleater-Kinney quarantenni che tornano a rispolverare il vecchio moniker dopo anni passati a inseguire carriere soliste, serie tv e eccellenti side-project non sono le stesse donne di dieci anni fa: il nuovo lavoro risente inevitabilmente della maturità che si acquisisce solo con l'età, rivelandosi fin dai primi ascolti come l'album più semplice e conciso nella carriera del gruppo.

Non è solo una questione di durata dell'LP (32 minuti) o dei brani, ma di un'evidente disposizione mentale a tagliare tutto il superfluo che invece aveva reso così speciale The Woods, rifocalizzandosi invece su quello che ha reso grande il trio fin dai tempi di Dig Me Out: ritornelli killer che si attaccano alle orecchie, la tensione sempre sul punto di esplodere creata dalle due chitarre e su tutto la grandissima voce di Corin Tucker, che dopo due album solisti non pienamente convincenti trova qui di nuovo la cornice giusta per brillare.

In apertura Price Tag mette subito i brividi: la carica politica del testo, che analizza lo sfacelo economico della classe media americana e le responsabilità di tutti noi, che inseguiamo sempre il prezzo più basso nei negozi, viene enfatizzato dalla registrazione essenziale del fido John Goodmanson, con quelle linee di chitarre immediatamente riconoscibili che ci emozionano anche oggi. A seguire Fangless è ancora meglio: un formato immediatamente pop (o power pop, nel senso di pop con chitarroni belli pesanti), qualche inedito accenno di synth new wave qua e là e soprattutto l'intesa stupenda tra Corin e Carrie, la prima protagonista delle strofe, la seconda esplosiva nel ritornello. 

La tentazione di etichettare No Cities to Love come l'album "pop" del trio viene confermata anche da altre tracce: Surface Envy, A New Wave e Bury Our Friends si reggono su ritornelli a prova di bomba, con suoni pompati al punto giusto, ma senza esagerare. Viene in mente All Hands on the Bad One, ma questa volta il lavoro in studio è stato molto più accurato e non c'è una sbavatura o una nota di troppo nell'intero disco, che scorre veloce e piacevole dalla prima all'ultima traccia, tra episodi più duri (No Anthems), glam pop (Gimme Love, forse l'episodio meno riuscito del disco) e una finta ballad (No Cities to Love), che sembra assumere un tono malinconico per poi esplodere come le altre in un liberatorio sfogo di energia. Il tutto si chiude con un classico brano d'addio alla Sleater-Kinney, ma che chissà perché sembra molto meno definitivo rispetto ad altre chiusure come Jenny (Dig Me Out), The Swimmer (All Hands on the Bad One) o la prodigiosa doppietta Let's Call It Love / Night Light che chiudeva The Woods: qui il finale rimane aperto, come se le tre alludessero già a un secondo capitolo di questa reunion, che speriamo possa arrivare molto presto.

In definitiva l'unica pecca che si può muovere a un album praticamente inattaccabile come questo è di non lasciare spazio a quelle zone oscure e indefinite nel suono del trio che, sebbene maggiormente passibili di critiche, avevano reso indimenticabile il loro ultimo lavoro di dieci anni fa. Prendersi rischi e sperimentare non pare far parte dell'equazione questa volta: quasi come se la band si fosse vergognata di essersi messa così a nudo (dal punto di vista emozionale, ma anche da quello degli ascolti di ognuna – pensate all'influenza hard rock che pervade tutto The Woods) e avesse quindi deciso di far finta di niente e tornare a suonare come su One Beat: l'album certamente meno sorprendente della loro carriera, anche se una buona spanna sopra a gran parte di quello che veniva prodotto nel 2002 (e anche oggi, by the way).

È ingiusto paragonare un lavoro onesto e intenso come No Cities to Love a qualcosa di molto diverso come The Woods, ma è impossibile non notare come, anche se i singoli elementi sono al loro posto, sembra di ascoltare una band diversa. E quindi: ben vengano le tre ex-ragazze che sono tornate a mostrarci come "il politico può essere personale e il personale politico" anche nel 2015, ma quell'evoluzione stellare che le aveva accompagnate per dieci anni pare finalmente essersi fermata, in un punto altissimo ma che è rimasto uguale a dove le avevamo lasciate. Le Sleater-Kinney sono lassù sulla loro nuvola e ci guardano tutti dall'alto di una carriera invidiabile, finalmente libere di divertirsi e di scrivere grandi canzoni pop con un'anima grande così. E direi che, arrivati a questo punto, ci potremmo anche ritenere soddisfatti.