Daft Punk – Random Access Memories (Recensione)

Daft Punk – Random Access Memories (Recensione)

2017-11-08T17:15:47+00:0030 Dicembre 2013|


Daft Punk Random Access Memories
I due francesi tornano con un'irresistibile dichiarazione d'amore per la musica degli anni '70 e '80, sempre piu' umani e sempre meno robot.

8,5/10


Uscita: 21 maggio 2013
Columbia Records
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La prima volta che ho ascoltato i Daft Punk in vita mia avevo all'incirca quindici anni, era il '97, e mio cugino stringeva forte i suoi polsini anti-vomito mentre dalle casse dell'auto in curva la radio espelleva Around The World. Eravamo entrambi stupidamente ambiziosi, per l'ambizione che si può avere a quindici anni: lui voleva fare il militare, io sognavo di fare la designer. Quando uscì il singolo One More Time era il novembre del 2000, avevo finito il liceo e mi era appena stata comunicata l'ammissione all'università e l'ingresso al glorioso studentato I.S.U. Mio cugino nel frattempo era entrato in marina. Cinque anni dopo, in coincidenza con la mia laurea, furono sempre i Daft Punk a ricordarmi che ero Human After All, nonostante il processo di robotizzazione fosse decisamente a buon punto.

Sono trascorsi 8 anni da allora. Mio cugino ha fatto carriera, ha messo su famiglia. Ora ha una figlia che ha chiamato come nostra nonna. Quanto a me, ne ho combinate un po', ma non di così grosse. E puntuale come il sistema solare, il duo di 'stupidi teppistelli' si ripresenta proprio quest'anno con un nuovo, meraviglioso album. Credo che solo chi abbia più di trent'anni oggi possa apprezzare appieno Random Access Memories, oltre che nel titolo, per il flusso di pensieri, ricordi e coscienza che porta con sé. Non a caso, Bangalter e de Homem-Christo hanno ben pensato di fare le cose in grande stavolta, reclutando una fitta schiera di collaboratori per registrare le loro parti dal vivo in studi super-professionali (gli Henson Recording Studios, i Conway Recording Studios e i Capitol Studios in California, gli Electric Lady Studios a New York City, e il Gang Recording Studio a Parigi), limitando l'uso dei componenti elettronici alle drum-machines, a un sintetizzatore modulare di speciale fattura, e a un vocoder d'annata.

Nel bel mezzo di un processo globale di de-umanizzazione inarrestabile, i due francesi si fanno insomma ancora una volta portavoci di una filantropia ironica e malinconica insieme: "Volevamo fare ciò che eravamo soliti fare con le macchine e i samplers, questa volta però con le persone" – hanno dichiarato, aggiungendo: "Non è che non possiamo fare roba folle dai suoni futuristici, è che questa volta volevamo giocare col passato." Imponenti infatti sono le sonorità anni '70 e anni '80, così come i riferimenti a quel periodo nei nomi dei collaboratori: ad esempio Giorgio Moroder – nome storico della synth-disco internazionale, al quale è stato semplicemente chiesto di narrare la sua vita in un monologo. Molte delle melodie sono state composte alla 'vecchia maniera', ossia su spartito, se non addirittura semplicemente fischiettate – come è successo per la complessa linea di basso e batteria di Giorgio by Moroder, poi replicata e perfezionata con lo strumento dal batterista Omar Hakim. Il budget prefissato per l'intero progetto, interamente finanziato dagli stessi Daft Punk, supera il milione di dollari: data la meticolosità con cui è stato curato il tutto, non c'è da meravigliarsi. Nell'album troviamo infatti anche una sezione di fiati, una d'archi e un coro, più vari effetti sonori decisamente bizzarri, come il rumore delle forchette di un gruppo di persone sedute al ristorante. Un altro dei collaboratori, Todd Edwards, ha specificato divertito che il microfono in cui ha cantato "vale più della sua auto", essendo lo stesso usato in passato da Frank Sinatra.

Il concetto alla base del faraonico progetto – come spiegato da Bangalter – è quello di 'incapsulare' l'interesse anche storico che i due nutrono verso il passato, rifacendosi alle tecnologie di memoria R.A.M. così come all'esperienza umana. Il sound che andavano cercando era il 'vibe' della 'west coast', riferendosi ad artisti come Fleetwood Mac e Eagles, con omaggi anche a Michael Jackson e Steely Dan. Insomma un gioiello vintage restaurato e aggiornato alla sua versione più futuristica.

Il lavoro certosino si nota già in apertura con Give Life Back to Music, che suona come un voto e una promessa. Con Nile Rodgers degli Chic, Paul Jackson Jr. alla chitarra, John "J.R." Robinson alla batteria, e i due francesi dietro al vocoder, l'opening track di Random Access Memories esce dallo stereo con la grazia di una bellissima gentildonna che discende elegantemente da una scalinata, per sorridere finalmente alle orecchie dell'ascoltatore. L'incanto e l'estasi si tramutano però presto in amara malinconia: la bellissima signora non può essere reale, bisbiglia The Game of Love, siamo solo degli stupidi umani, e ci lasciamo piacevolmente ingannare. A ricondurci serenamente alla realtà e ad indicarci la vera strada per il sogno è Giorgio Moroder, che nel suo monologo in Giorgio by Moroder spiega: "Quando avevo 15-16 anni e ho cominciato a suonare la chitarra, volevo davvero diventare senza alcun dubbio un musicista. Era quasi impossibile perché il sogno era così grande: non vedevo assolutamente nessuna possibilità, perché vivevo in una città minuscola, ero solo uno studente. Ma quando ho finalmente finito la scuola e sono diventato un musicista, ho pensato beh forse adesso ho qualche possibilità, perché tutto quello che volevo fare era musica." E non appena finisce la sua storia, dicendo "Il mio nome è Giovanni Giorgio, ma tutti mi chiamano Giorgio", è come entrare in una nuova dimensione, fatta di sogni possibili e di speranze avverate – tutto grazie a un sintetizzatore e a un vocoder. A seguire, la delicata Within, una delle prime tracce registrate per l'album: Chilly Gonzales al piano e un accompagnamento minimale di basso e percussioni fanno da sottofondo a una voce venuta dal profondo della solitudine, che attraverso un vocoder canta di non capire il mondo, di sentirsi perduta e di non ricordarsi più nemmeno il proprio nome.

La condizione di disincanto così tipicamente umana, si ripresenta in Instant Crush e nell'idea eternamente delusa dell'amicizia, così espressa dalla voce di Julian Casablancas degli Strokes: 'Ho ascoltato i tuoi problemi, adesso ascolta i miei' – non volevo più / E non saremo mai più soli di nuovo / Perché non capita tutti i giorni / In qualche modo pensavo tu fossi un amico / Posso lasciar perdere o dar via tutto / 1000 stelle solitarie / Si nascondono nel freddo / Tieni, oh non voglio più cantare". E quasi come nella miglior tradizione dei nerd sconfitti e desolati, a ricordare i Kings Of Convenience di I'd Rather Dance with You, ecco Lose Yourself to Dance, che riporta l'album su toni più leggeri grazie alla spensieratezza riparatrice di Pharrell Williams alla voce.

A seguire, nel mezzo del cammin di Random Access Memories, ci ritroviamo nella selva oscura di Touch, il brano più complicato dell'intero album, composto infatti da ben 250 elementi diversi. Lo stesso de Homem-Christo ha ammesso che il pezzo rappresenta il 'core' di tutto il progetto, il perno attorno a cui girano tutti i ricordi legati al resto degli altri brani. Scritto e interpretato dal compositore americano Paul Williams, nonostante l'approccio un po' fiacco, riesce comunque a sollevare diverse questioni interessanti grazie ai frequenti cambi ritmici e alla frase che ossessivamente si ripete: "Se l'amore è la risposta, resisti", per chiudersi poi con un amletico "Mi hai quasi convinto di essere reale". Il pluripremiato e superballabile singolo Get Lucky fa però da scacciapensieri, e giunge a questo punto salvifico. C'è da dire che effettivamente porta fortuna: una sera d'estate, mentre questo pezzo suonava, ho trovato un'intera busta di tabacco con tanto di cartine, abbandonata da qualche incauto avventuriero per la mia effimera gioia. Lo so che Pharrell Williams (l'addetto alle canzoni allegre dell'album) sostiene che si tratti di 'fortuna in amore', ma ehi, seppure fuggitiva e passeggera, sempre di fortuna si tratta. Un brano che è ormai diventato un classico, tanto da essere stato coverizzato praticamente da chiunque, sì, persino da un corpo di polizia russo al completo.

Sorvolando sulla momentanea parentesi di noia fornita da Beyond (ancora una volta opera di Paul Williams), che per qualche ragione mi ricorda l'amatoriale ma pur sempre significativa Prune Slicker del pressoché sconosciuto compositore Loke Wilson, ci si sofferma molto volentieri su Motherboard. Il pezzo, descritto dai Daft Punk come "una composizione futuristica che potrebbe essere datata 4000 d.C.", è a mio avviso il brano più 'complesso' (e non 'complicato') dell'album. Sapientemente ricamati in tutto il pezzo, tra l'altro, si ravvisano echi del bellissimo Parallelograms, album targato 1970 di Linda Perhacs, che i due francesi già omaggiarono nel loro film Electroma. E a proposito del tempo e del suo trascorrere, la successiva Fragments of Time sta a rammentarci tutto ciò, col sapore fintamente scanzonato del sound anni '70 unito alla consapevolezza un po' amara ma mai abbattuta degli effetti cut-up elettronici forniti da Todd Edwards.

Doin' It Right è invece l'ultima canzone a essere stata registrata, e ospita alla voce Panda Bear (al secolo Noah Benjamin Lennox, meglio conosciuto come membro fondatore degli Animal Collective). Si tratta dell'unico brano puramente 'elettronico' dell'album, eseguito con un sintetizzatore modulare e senza strumenti addizionali, a parte la voce di Lennox. Singolare come proprio adesso, che la presenza umana è ridotta al minimo – o meglio, è a livelli appena sufficienti rispetto a Motherboard – nel testo si legga "Se perdi la tua strada stanotte / E' così che sai che la magia è quella giusta". Al black-humor di tutto ciò si aggiunge Contact, closing track prodotta insieme a DJ Falcon che si apre con una registrazione del Capitano Eugene Cernan, l'ultimo uomo ad aver abbandonato la superificie lunare con la missione Apollo 17, e per la quale i due francesi sono andati a scomodare persino la NASA. In un meraviglioso intreccio di riff orchestrali e sintetizzati, con affilate chitarre a tagliare i vari layer sonori, si conclude un viaggio estremamente ben organizzato dai due piloti spaziali parigini.

Random Access Memories è innegabilmente un prodotto di altissima qualità, stratificato e impeccabile nell'ascolto, che entra di diritto tra i migliori album dell'anno, almeno per noi piccoli umani che guardiamo da quaggiù. E come per tutti i dischi di grande successo (si pensi a Dark Side of the Moon dei Pink Floyd o al quarto disco dei Led Zeppelin) c'è già chi teorizza che le varie track contengano messaggi subliminali di varia natura. Ma la cosa impressionante, in questo caso, è che l'album suona gradevole persino suonato al contrario!